La domanda giudiziale inammissibile è idonea ad interrompere la prescrizione?

ecco il nostro intervento

 Con la sentenza n. 29609 dd. 16.11.2018 la Corte di Cassazione, facendo seguito alle precedenti pronunce nn. 1516/2016 – SS.UU. -, 23017/2012 e 24808/2005, ha ribadito quanto segue:

“il principio sancito dall’art. 2945, comma 2, c.c., secondo cui l’interruzione della prescrizione determinata dalla proposizione della domanda giudiziale si protrae fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, trova [omissis] deroga soltanto nel caso di estinzione del processo, e resta pertanto anche applicabile anche nell’ipotesi in cui detta sentenza […] si sia limitata a definire eventuali questioni di carattere pregiudiziale, purché essa sia stata pronunciata nell’ambito di un rapporto processuale della cui esistenza le parti siano a conoscenza [omissis]”

Nel caso dal quale è scaturita la sopraccitata pronuncia dei giudici di legittimità, nello specifico, parte attrice aveva instaurato un giudizio volto ad ottenere il risarcimento del danno patito per occupazione illegittima di immobile. In fase di impugnazione, successiva alla sentenza di primo grado, gli attori avevano per la prima volta formulato in via subordinata domande di determinazione delle indennità di occupazione ed espropriazione, dichiarate inammissibili in quanto nuove.

In tale contesto, la Suprema Corte ha non solo ritenuto che l’atto d’appello avesse esplicato efficacia interrutiva dei termini prescrizionali anche in ordine proprio a quelle domande dichiarate inammissibili all’esito della fase di gravame, ma ancor più significativamente che tale efficacia non fosse meramente istantanea, ma ricadesse nell’ambito applicativo dell’art. 2945, comma 2, c.c..

Secondo la posizione della Corte, infatti, l’effetto interruttivo permanente disciplinato da tale norma deve essere riconosciuto anche alla domanda dichiarata inammissibile, posto che la relativa dichiarazione di inammissibilità presuppone in ogni caso una pronuncia giudiziale idonea a passare formalmente in giudicato e, correlativamente, una difesa attiva della controparte, che dunque si presuppone sia pienamente edotta della volontà dell’attore di azionare il diritto oggetto della domanda.

La sentenza in parola pare perfettamente coerente con i principi cardine dell’impianto processualistico e, segnatamente, con la finalità e la ratio dell’art. 2945 c.c.. Si ritiene, peraltro, che un’importante eccezione possa darsi nel caso in cui la domanda attorea sia dichiarata inammissibile (rectius, radicalmente nulla) qualora ricorra l’ipotesi disciplinata dall’art. 164, comma 4, c.p.c.:

La citazione è altresì nulla se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito nel numero 3) dell’articolo 163 ovvero se manca l’esposizione dei fatti di cui al numero 4) dello stesso articolo.

Un vizio afferente l’editio actionis, ad avviso di chi scrive, renderebbe infatti impossibile ritenere soddisfatto quel requisito di conoscibilità dell’altrui diritto fatto valere in giudizio, ritenuto elemento determinante dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 29609/2018 qui riportata. Tanto è vero che un’eventuale integrazione o rinnovazione, rilevato il vizio di cui all’art. 164, comma 4, c.p.c., per espressa previsione legislativa contenuta nel seguente comma 5 avrebbe efficacia sanante ex nunc e lascerebbe, dunque, ferma ogni prescrizione o decadenza nel frattempo intervenuta.

In conclusione, si ritiene che la domanda giudiziale inammissibile possa essere ritenuta idonea ad interrompere la prescrizione con effetto interruttivo permanente sino al passaggio in giudicato della sentenza che ne ha sancito l’inammissibilità. Qualora, tuttavia, la declaratoria di inammissibilità/nullità sia il portato dell’applicazione dell’art. 164, comma 4, c.p.c. (evidentemente, senza che la parte che agisce in giudizio abbia proceduto a idonea integrazione o rinnovazione della domanda), la domanda stessa non esplicherà, pacificamente, alcuna efficacia interruttiva nemmeno ad effetto istantaneo.

Recupero del credito e nuovo procedimento monitorio, ipotesi di modifica del codice di procedura civile

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È al vaglio al Senato, proprio in questi giorni, il disegno di legge n. 755 dd. 07.08.2018 (qui il link), avente ad oggetto “modifiche al procedimento monitorio ed esecutivo per l’effettiva realizzazione del credito“. Il d.d.l., per quel che interessa in questa sede, prevede l’introduzione di un’ulteriore procedura di recupero credito in via monitoria, da affiancare dunque a quella “tradizionale” di cui all’art. 633 c.p.c.. Questo il testo dell’art. 656bis c.p.c., nella formulazione proposta nel disegno di legge:

Art. 656- bis – (Atto di ingiunzione di pagamento) – L’avvocato munito di mandato professionale, su richiesta dell’assistito che sia creditore di una somma liquida di danaro, emette un atto di ingiunzione di pagamento con cui ingiunge all’altra parte di pagare la somma dovuta nel termine di venti giorni, con l’espresso avvertimento che nello stesso termine può essere fatta opposizione a norma degli articoli seguenti e che, in mancanza di opposizione, si procederà a esecuzione forzata: a) se del diritto fatto valere si dà prova scritta ai sensi dell’articolo 634; b) se il credito riguarda onorari per prestazioni giudiziali o stragiudiziali o rimborso di spese fatte da avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari o da chiunque altro ha prestato la sua opera in occasione di un processo; c) se il credito riguarda onorari, diritti o rimborsi spettanti ai notai a norma della loro legge professionale, oppure ad altri esercenti una libera professione o arte, per la quale esiste una tariffa legalmente approvata. Nell’atto di intimazione sono quantificate le spese e le competenze e se ne ingiunge il pagamento.

Nella sostanza, il procedimento monitorio nella sua nuova veste, alternativa ed ulteriore rispetto a quella attuale, si svilupperebbe come atto di parte, il cui impulso sarebbe affidato al legale del creditore: in questa fase non sarebbe dunque necessario alcun vaglio né provvedimento giudiziale. La ratio dichiarata della proposta è quella di introdurre un meccanismo di alternative dispute resolution. Nello stesso testo del d.d.l. si legge quanto segue:

In buona sostanza è il difensore di parte che accerta gli elementi di cui all’articolo 633 del codice di procedura civile, che il disegno di legge riproduce nel nuovo articolo 656- bis, eliminando, per talune ipotesi, quel mero «accertamento notarile» che oggi è svolto dai giudici civili e che tuttavia ha un notevole costo per l’amministrazione della giustizia provocando un rallentamento ed un impatto negativo sulle aspettative di giustizia dei cittadini e delle imprese.

Viene peraltro specificato come, anzitutto, l’ingiunzione di pagamento inviata dal legale non potrà avere alcuna efficacia esecutiva, neppure provvisoria, se non in caso di mancata opposizione del ricevente nei termini indicati dalla norma. In via ulteriore, si è tentato di assicurare comunque un preventivo vaglio rispetto alla fondatezza del credito, affidando tale attività allo stesso legale e prevedendo l’introduzione del seguente articolo:

Art. 656- ter – (Verifica dei presupposti) – È onere dell’avvocato che emette l’ingiunzione, a pena di responsabilità civile e disciplinare, verificare la sussistenza dei requisiti previsti dall’articolo 656- bis. Nel caso in cui l’avvocato ometta con dolo o colpa grave la puntuale verifica della sussistenza di tali requisiti, ne risponde disciplinarmente dinnanzi al competente ordine professionale e deve rimborsare le spese giudiziarie sostenute e i danni subiti dal soggetto erroneamente ingiunto. [omissis]

L’eventuale opposizione del debitore, sempre secondo la prospettazione del disegno di legge n. 755/2018, dovrà essere proposta nella forma del ricorso (e non già, dunque, dell’atto di citazione) sempre nel termine di venti giorni dal ricevimento dell’ingiunzione, decorso infruttuosamente il quale il creditore potrà agire forzatamente. Il contenuto del d.d.l. e, segnatamente, lo strumento processuale che lo stesso si propone di introdurre con la (pur meritoria) finalità di rendere più snello e meno macchinoso il recupero del credito, desta non poche perplessità.

Anzitutto, ad avviso di chi scrive l’ingiunzione “di parte” potrebbe andare incontro a possibili censure dal punto di vista della sua legittimità costituzionale, con particolare riguardo all’art. 24 Cost.. Lo strumento processuale di cui al tratteggiato art. 656bis c.p.c. pare infatti sottrarre al necessario ed indefettibile vaglio di un organo giurisdizionale l’emissione di un atto che, in assenza di opposizione negli stretti termini temporali indicati nella proposta di legge, è destinato ad esplicare effetti estremamente incisivi nella sfera giuridica del debitore, e tutto ciò in lesione del suo diritto di difesa costituzionalmente garantito.

In secondo luogo, proprio in quanto atto di parte si ritiene che lo strumento processuale in parola possa prestarsi a possibili storture applicative, rese più improbabili a fronte del controllo giurisdizionale, pur a vocazione prevalentemente formalistica, previsto dall’attuale assetto del procedimento monitorio. Storture che difficilmente potranno essere scongiurate dagli strumenti di responsabilizzazione del legale della parte creditrice, stante il fatto che da quest’ultimo difficilmente potrà essere pretesa una verifica che vada oltre l’esistenza e apparente regolarità della documentazione posta a base dell’asserito credito.

Al contrario, ad avviso di chi scrive pare meritevole di approfondita valutazione la proposta di introduzione dell’art. 492ter c.p.c., grazie al quale sarebbe possibile per il creditore, previa autorizzazione del Presidente del Tribunale territorialmente competente, accedere ad informazioni relative ai beni da pignorare del debitore. Ciò, chiaramente, andrebbe a chiaro vantaggio della parte creditrice, la quale potrebbe valutare la convenienza e l’opportunità di un’azione monitoria prima di darvi corso, così da avere piena consapevolezza di potenzialità, costi e rischi.

Danno biologico di lieve entità, presupposti di risarcibilità: la Cassazione torna sull’argomento

 

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Con ordinanza n. 22066 dd. 11.09.2018 la Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su un tema assai dibattuto in materia di danno biologico c.d. di lieve entità e, in particolare, sui limiti di applicazione delle previsioni contenute nell’art. 32, commi 3ter e 3quater del d.l. n. 1/2012, convertito in legge n. 27/2012. Prima di passare all’analisi di tale pronuncia, si ritiene opportuno affrontare un breve excursus del travagliato percorso legislativo, interpretativo ed applicativo delle succitate norme. Come noto, le disposizioni in commento prevedono quanto segue:

3- ter. Al comma 2 dell’articolo 139 del codice delle assicurazioni private di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: ” In ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente“.

3- quater. Il danno alla persona per lesioni di lieve entità di cui all’articolo 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, è risarcito solo a seguito di riscontro medico legale da cui risulti visivamente o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione.

Le norme, che certa parte della dottrina riconduce ad un piano di applicazione più processuale (ritenendole relative in senso stretto alla prova del danno di cui si chiede ristoro) che sostanziale, furono accompagnate sin dalla fase di elaborazione legislativa da alcune annotazioni che, pur estremamente succinte, ne coglievano possibili profili di criticità. Lo stesso Servizio Studi della Camera dei Deputati non mancava di osservare quanto segue:

Al riguardo si ritiene opportuno un chiarimento della portata delle disposizioni, considerando che le due norme presentano un campo di applicazione comune, ma sembrano contenere profili contradditori. Infatti, mentre il comma 3- ter esclude il risarcimento del danno biologico “ permanente” nel caso in cui le lesioni non siano suscettibili di “accertamento clinico strumentale obiettivo”, il comma 3- quater ammette il risarcimento (senza specificare se a titolo di danno biologico permanente o temporaneo) qualora vi sia un riscontro medico legale da cui risulti “ visivamente” o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione.

 

Criticità applicative ed interpretative che portavano financo ad investire la Corte Costituzionale della questione di legittimità delle norme in commento, in relazione specificamente agli articoli 3, 24 e 32 della Costituzione: il possibile vulnus veniva individuato per quei «piccoli danni che non possono essere oggetto di riscontri diagnostici strumentali, bensì solo di un giudizio medico di plausibilità ed attendibilità, senza possibilità […] di una conferma strumentale». Con ordinanza n. 242/2015, dunque, la Corte facendo seguito alla precedente sentenza n. 235/2014 dichiarava manifestamente infondata la questione e fissava alcuni principi importanti, chiarendo sempre dalla prospettiva della legittimità costituzionale come, da un lato, la necessità di un riscontro strumentale dovesse essere esclusa per i danni temporanei e richiesta solo per quelli a carattere permanente e, dall’altro, come:

la limitazione imposta al correlativo accertamento (che sarebbe altrimenti sottoposto ad una discrezionalità eccessiva, con rischio di estensione a postumi invalidanti inesistenti o enfatizzati) è stata, infatti, già ritenuta rispondente a criteri di ragionevolezza, in termini di bilanciamento, «in un sistema, come quello vigente, di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurata, in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici, e nel quale l’interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi».

In tale contesto i Tribunali di legittimità hanno, seppur con qualche voce discordante, assunto una posizione che pare ben riassunta nella sentenza dd. 08.01.2015 del Tribunale di Bologna. È quindi stato osservato che:

Secondo la migliore scienza medico-legale, vi è evidenza visiva o strumentale di un danno anatomico, in tutti quei casi in cui, anche in assenza di reperti visivi o strumentali, l’analisi medico-legale porta comunque a ritenere “evidente” il ricorrere di una patologia traumatica; tale evidenza non sussiste quando le mere allegazioni di soggettività e/o le prime certificazioni redatte a distanza di tempo dal sinistro, al vaglio medico-legale risultano non compatibili con quel sinistro, attestando lesioni che la violenza dell’urto, per la sua irrisorietà, non può giustificare.

Si può concludere quindi che, ove l’analisi medico-legale di cui sopra riscontri positivamente la lesione denunciata, l’accertamento della lesione del bene salute e dei pregiudizi consequenziali non è presunto sulla base di mera sintomatologia soggettiva, ma è verificato obiettivamente in contraddittorio tra tutte le parti ed i loro consulenti, non lasciando spazio a facili narrazioni e/o simulazioni da parte della (falsa) vittima.

Nello stesso solco, il Tribunale di Ascoli Piceno ha recentemente (sentenza dd. 14.11.2017) statuito che:

In altri termini, la novella in esame ha inteso chiarire che la lesione alla salute può essere provata – anche mediante presunzioni, in base alle ordinarie norme codicistiche – “visivamente o strumentalmente“, non essendo più ammissibile desumere tale prova soltanto dalla sintomatologia della vittima. In altri termini si è stabilita la regola per cui la presunzione fornita in giudizio è grave e precisa allorché sia stata accertata la lesione alla salute visivamente o strumentalmente.

Per tale via, dunque, secondo la migliore scienza medico legale, vi è evidenza visiva o strumentale di un danno fisico allorché – anche in assenza di reperti visivi o strumentali, l’analisi medico-legale porta comunque a ritenere ” evidente” il ricorrere di una patologia traumatica.

Ad avviso dello scrivente, le succitate pronunce vanno incontro a profili di criticità che, va evidenziato, sono il portato di una formulazione legislativa tutt’altro che cristallina. In primo luogo, si ritiene che con la succitata sentenza il Tribunale di Bologna abbia confuso due piani in realtà ben distinti, e cioè da un lato l’«evidenza visiva o strumentale» richiesta per l’accertamento del danno biologico e dall’altro la compatibilità di tale danno con l’evento dedotto in causa. Quest’ultimo profilo, infatti, attiene in prima battuta la sussistenza di un nesso causale tra il danno e il fatto e non già, quindi, l’accertamento e la successiva conseguente valutazione di quel danno.

In secondo luogo, entrambe le succitate pronunce pongono sul medesimo piano i criteri scientifici di accertamento clinico-strumentale-visivo, attingendo indifferentemente e senza alcuna gerarchia né ordine predefinito all’uno o all’altro. Invero, si ritiene che mentre i primi (clinico-strumentale) afferiscano per esplicita volontà del legislatore il solo danno permanente, il secondo (visivo) riguardi sì il danno permanente, rappresentandone di fatto un elemento valutativo ultroneo che per certo non si sostituisce ai primi due, ma attenga in via ulteriore e precipua il danno temporaneo, costituendone in questo caso un presupposto di risarcibilità e valutazione differente ed alternativo rispetto a quelli clinico e strumentale. Tale interpretazione è suffragata dalla stessa Corte costituzionale che, con la sentenza n. 235/2014 già sopra richiamata, sull’art. 32, commi 3ter e 3quater esponeva quanto segue:

Tali nuove disposizioni – [omissis] – rispettivamente comportano, per tali lievi lesioni:

− la necessità di un “ accertamento clinico strumentale” (di un referto di diagnostica, cioè, per immagini) per la risarcibilità del danno biologico permanente;

− la possibilità anche di un mero riscontro visivo, da parte del medico legale, per la risarcibilità del danno da invalidità temporanea.

Se dunque in entrambe le citate sentenze di merito si fa riferimento ad un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni di cui qui si discute, al contempo si ritiene che un’attenta e puntuale interpretazione del dettato normativo dovrebbe in realtà condurre ad una differenziazione dei presupposti di accertamento e valutazione del danno biologico tra permanente e temporaneo, nel senso di cui si è appena dato conto.

La recente sentenza n. 22066/2018 della Corte di Cassazione richiamata in esordio di questo intervento, facendo seguito ad altre pronunce di contenuto simile, introduce ulteriori spunti, fissando principi applicativi e di interpretazione di indubbio interesse. La Suprema Corte ha infatti enucleato come:

[omissis] l’accertamento clinico strumentale obiettivo non potrà in ogni caso ritenersi l’unico mezzo probatorio che consenta di riconoscere tale lesione a fini risarcitori, a meno che non si tratti di una patologia, difficilmente verificabile sulla base della sola visita del medico legale, che sia suscettibile di riscontro oggettivo soltanto attraverso l’esame clinico strumentale.

Ed ancora:

[omissis] alla stregua di tale principio, cui il Collegio intende dare continuità, deve dunque ritenersi che, ferma restando la necessità di un rigoroso accertamento medico-legale da compiersi in base a criteri oggettivi, la sussistenza dell’invalidità permanente non possa essere esclusa per il solo fatto che non sia documentata da un referto strumentale per immagini, sulla base di un automatismo che vincoli, sempre e comunque, il riconoscimento dell’invalidità permanente ad una verifica di natura strumentale.

La Corte di Cassazione ha dunque chiarito, tra l’altro, come ai fini dell’accertamento di una lesione all’integrità psico-fisica ci si debba attenere a rigorosi ed oggettivi criteri medico-legali, senza tuttavia che sia richiesto un referto strumentale per immagini. A sommesso avviso dello scrivente, tale principio pare condivisibile solo laddove, secondo una riconosciuta e condivisa prassi medico-legale nella quale per evidenti ragioni non ci si addentra, possa ipotizzarsi un accertamento strumentale che non sia, per l’appunto, «per immagini». Qualora invece non possa darsi altro accertamento strumentale se non quello per immagini, si ritiene che l’interpretazione fatta propria dalla Suprema Corte conduca di fatto ad una sostanziale disapplicazione dell’art. 32, comma 3ter del d.l. n. 1/2012, convertito in legge n. 27/2012. Il richiamo che la sentenza in commento opera della precedente pronuncia n. 1272/2018 della Suprema Corte farebbe propendere, in realtà, proprio per questa seconda possibilità. Ed infatti la Cassazione si era già sul punto così espressa:

Il rigore che il legislatore ha dimostrato di esigere – che, peraltro, deve caratterizzare ogni tipo di accertamento in tale materia – non può essere inteso, però, come pure alcuni hanno sostenuto, nel senso che la prova della lesione debba essere fornita esclusivamente con l’accertamento clinico strumentale;[omissis] infatti, è sempre e soltanto l’accertamento medico legale svolto in conformità alle leges artis a stabilire se la lesione sussista e quale percentuale sia ad essa ricollegabile. E l’accertamento medico non può essere imbrigliato con un vincolo probatorio che, ove effettivamente fosse posto per legge, condurrebbe a dubbi non manifestamente infondati di legittimità costituzionale, posto che il diritto alla salute è un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione e che la limitazione della prova della lesione del medesimo deve essere conforme a criteri di ragionevolezza.

Nella sostanza, quindi, secondo l’orientamento allo stato maggioritario sia nella giurisprudenza di merito (di cui si sono sopra citate due pronunce tra le molte di simile contenuto) che di legittimità, ai fini dell’accertamento della lesione dell’integrità psico-fisica, nonché della successiva e conseguente valutazione del danno, i criteri scientifici clinico-strumentale-visivo debbono essere intesi in via paritaria ed alternativa, con una commistione dei piani applicativi degli art. 32, commi 3ter e 3quater, pur dichiaratamente distinti tra danno permanente danno temporaneo. Si ritiene, d’altro canto, che la richiamata necessità di un accertamento medico legale svolto in conformità alle leges artis e non già quello di un esame clinico-strumentale conduca come accennato ad una sostanziale disapplicazione delle norme in commento, difficilmente motivabile sulla scorta di un potenziale profilo di illegittimità costituzionale che la stessa Corte costituzionale ha esplicitamente escluso.

Pare dirimente, in conclusione, rammentare come la valutazione circa l’antigiuridicità di un fatto e la meritevolezza di una tutela risarcitoria del danno che ne può conseguire, qualora coerenti con l’impianto costituzionale del nostro ordinamento, costituiscano scelte prettamente ed esclusivamente legislative. Rimane certamente, ad avviso di chi scrive, un contesto nel quale la non felice formulazione delle norme in commento non è stata e non è d’ausilio per gli operatori del diritto: circostanza, questa, che imporrebbe un ulteriore intervento riformatore, posto che la recente introduzione della legge n. 124/2017 non ha per certo gettato nuova luce sulla questione.

Surroga Inail e differenziale: note a margine di Cass. 21961/18 e Finanziaria 2019

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Con la sentenza n. 21961 dd. 10.09.2018, la Corte di Cassazione è intervenuta a chiarire i presupposti e i limiti dell’azione di surrogazione di cui è titolata l’Inail nei confronti del responsabile civile.

I giudici di legittimità hanno innanzitutto descritto i tipi di danno suscettibili d’indennizzo da parte dell’assicuratore sociale, ricordando che

“L’Inail indennizza due tipi di danno, il danno biologico, sotto forma di rendita, ai sensi dell’art.  13 del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 e il danno patrimoniale nei seguenti profili: la riduzione della capacità di guadagno (che la legge, ai fini dell’assicurazione sociale, presume juris et de jure quando l’invalidità biologica sia superiore al 16 per cento e viene liquidata); la perdita del salario durante il periodo di assenza per malattia (che l’Inail indennizza col pagamento d’una indennità giornaliera pari al 60 per cento della retribuzione, ai sensi dell’art.  68, comma primo, d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124); le spese sanitarie (che l’Istituto è tenuto ad anticipare ai sensi degli artt.  86 e ss. d.P.R. n. 1124cit.).”

Osservano quindi che il primo dei tre pregiudizi patrimoniali, ossia la riduzione della capacità di guadagno, siccome presunta juris et de jure, è

“indennizzato dall’Inail anche quando la vittima dell’infortunio non abbia patito, o non abbia dimostrato di avere patito, alcun pregiudizio da lucro cessante derivato dalla perdita della capacità di lavoro e di guadagno; l’incremento della rendita, infatti, viene erogato dall’Inail senza alcun accertamento concreto circa l’esistenza d’un danno patrimoniale, che la legge – nell’ottica compensativa tipica dell’assicurazione sociale – presume esistente juris et de jure quando l’invalidità permanente sia superiore al 16 per cento.”

Ne consegue, coerentemente, che – a differenza dell’indennità giornaliera e delle spese mediche, che l’Inail riconosce al lavoratore assicurato solo quando questi effettivamente si assenti dal lavoro o sostenga costi per le cure – al contrario

“l’accoglimento della domanda di surrogazione dell’Inail, per gli importi pagati a titolo di incremento della rendita per danno patrimoniale presunto, presuppone l’accertamento che la vittima abbia effettivamente patito un danno civilistico alla capacità di lavoro, in assenza del quale nessuna surrogazione sarà possibile.”

Senza tale dimostrazione, infatti, il surrogante non porterebbe alcuna prova a dimostrazione del danno patito dal surrogato, in luogo del quale pretende la ripetizione delle somme.

La condivisibile logica della pronuncia in esame collide potenzialmente con la posizione cristallizzata dalla Corte in pronunce di poco precedenti, tra cui si cita l’ultima (Cass. Civ., 21.11.2017, n. 27669, che si adegua alle istruzioni del dott. Rossetti contenute in ord. 30.08.2017, n. 17407), stando alle quali

“in tema di liquidazione del danno biologico c.d. differenziale, di cui il datore di lavoro è chiamato a rispondere nei casi in cui opera la copertura assicurativa INAIL in termini coerenti con la struttura bipolare del danno-conseguenza, va operato un computo per poste omogenee, sicché, dall’ammontare complessivo del danno biologico va detratto, non già il valore capitale dell’intera rendita costituita dall’INAIL, ma solo il valore capitale della quota di essa destinata a ristorare, in forza dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata alla retribuzione ed alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato, volta all’indennizzo del danno patrimoniale (v. Cass. lav. n. 20807 del 14 ottobre 2016).”

Il punto di potenziale collisione giace nell’osservazione che, laddove correttamente si ritenga di non dar seguito alla surrogazione dell’Inail per voci civilisticamente non sussistenti, nella complementare liquidazione del differenziale in favore del lavoratore danneggiato colui che non abbia patito alcun danno patrimoniale alla capacità di lavoro otterrebbe lo stesso trattamento di colui che lo avesse invece patito in misura tale da assorbire economicamente la quota patrimoniale della rendita Inail.

Non deve sfuggire, a riguardo, che uno dei cardini che sorreggono la teoria dello scomputo posta per posta è proprio il fine di evitare una (in realtà mai sino in fondo dipanata) differenza di trattamento tra vittima- lavoratore dipendente e vittima-lavoratore non dipendente. Differenza che, in realtà, proprio il danno differenziale annulla civilisticamente.

Al contrario, come visto e in maniera più evidente e grave, la sottrazione voce per voce è potenzialmente foriera di una disparità di trattamento tra vittime del sinistro che, quali lavoratori dipendenti, condividono la medesima situazione di fatto e diritto.

Si deve poi tener conto dello scardinamento del secondo puntello di questa regola di scomputo. Questo secondo cardine è costituito, come si ricorderà, dall’addotta differente finalità tra indennità sociale e risarcimento civilistico, differenza che consentirebbe il cumulo tra i due importi.

Tuttavia, tale teoria pare mal conciliarsi sia con il dettato dell’art. 13 d.lgs. 38/2000, sia col principio indennitario, stando al quale il trasferimento del rischio (in questo caso, dal lavoratore all’Inail) non può costituire fonte di lucro per il lavoratore in quanto l’indennizzo deve svolgere unicamente la funzione di riparare il danno subito dall’assicurato.

A chiarire definitivamente il quadro è ora intervenuta la Finanziaria 2019, che all’art. 10 dPR 1124/1965 ha introdotto con un nuovo comma la regola che

“non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo, complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo, non ascende a somma maggiore dell’indennità che a qualsiasi titolo ed indistintamente, per effetto del presente decreto, è liquidata all’infortunato o ai suoi aventi diritto”,

smentendo così a livello legislativo il secondo cardine su cui regge(va) la regola dello scomputo per poste omogenee.

 

Polizze collettive e convenzioni: la distribuzione del broker sui circuiti bancari

http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/avvocatoAffari/mercatiImpresa/2018-03-05/polizze-collettive-e-convenzioni-distribuzione-broker-circuiti-bancari-121824.php

Nella prassi di mercato accade che il canale bancassicurativo si avvalga di broker captive, addetti alla gestione del service post-vendita di prodotti collocati tramite gli sportelli bancari.
Anche questo servizio rientra a pieno titolo nella definizione legale di intermediazione assicurativa, come è dato cogliere testualmente dall’art. 106 d.lgs. 209/2005 (…. ) continua a leggere qui

 

L’impugnazione da parte dell’assicurazione impedisce il passaggio in giudicato della sentenza erga omnes

leggi su quotidianogiuridico.it

In caso di chiamata in causa in garanzia dell’assicuratore della responsabilità civile, l’impugnazione esperita esclusivamente dal terzo chiamato avverso la sentenza che abbia accolto sia la domanda principale di affermazione della responsabilità del convenuto e di condanna dello stesso al risarcimento del danno, che la domanda di garanzia da costui proposta, giova anche al soggetto assicurato, senza necessità di una sua impugnazione incidentale.

A confermarlo è la Corte di cassazione con sentenza dell’11 aprile 2017, n. 9250.

«RINNOVO DELL’ANA 2003? CI ASPETTIAMO MAGGIORI CONCESSIONI DALLE COMPAGNIE»

«Il rinnovo dell’Accordo nazionale agenti del 2003? Da tempo stiamo lavorando allo studio di possibili ipotesi e a questo proposito vorrei ricordare che la contrattazione nazionale dovrebbe sempre riservare maggiori risultati alla parte debole del rapporto, per cui dal rinnovo dell’Ana ci aspettiamo maggiori concessioni dalle compagnie».

leggi l’articolo su tuttointermedari.it

leggi qui sull’attuale vigenza dell’Accordo Nazionale Agenti

Intermediari assicurativi e quantificazione degli oneri di sicurezza

di Rosalba avv. Colasuonno

E’possibile per l’intermediario assicurativo, a determinate condizioni, esporre costo zero alla voce oneri della sicurezza nell’offerta di partecipazione a una gara pubblica.

Abbiamo già visto come l’aggiudicazione ed esecuzione di un contratto d’appalto pubblico non comporti necessariamente l’aumento o l’integrazione ad hoc di spese per oneri della sicurezza specifici.

La quantificazione degli oneri aziendali della sicurezza è, dunque, rimessa al singolo concorrente in ragione del fatto che sono quelli

afferenti all’esercizio dell’attività svolta da ciascun operatore economico (detti anche, in giurisprudenza piuttosto che in dottrina, costi ex lege, costi propri, costi da rischi specifici o costi aziendali necessari per la risoluzione dei rischi specifici propri dell’appaltatore), relativi sia alle misure per la gestione del rischio dell’operatore economico, sia alle misure operative per i rischi legati alle lavorazioni e alla loro contestualizzazione.

L’indicazione degli oneri inerenti alla sicurezza aziendale deve necessariamente essere riferita esclusivamente alle

voci di oneri effettivamente sostenute o da sostenere in relazione allo specifico appalto dal concorrente e per le quali lo stesso dovrà fornire su richiesta della stazione appaltante le relative giustificazioni.

Date tali premesse è evidente che il contenuto delle prestazioni oggetto di appalto può essere tale da non comportare livelli di rischio afferenti al tema della salute e della sicurezza, né, nell’ottica di una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni in esame, può ritenersi sussistente un onere dichiarativo di costi ontologicamente inesistenti.

A maggior ragione nel caso di prestazioni aventi natura prettamente intellettuale, in cui nessuna attività è richiesta al di fuori dei locali dell’impresa prestatrice del servizio o comunque presso le sedi della stazione appaltante, stante

la riconosciuta illegittimità di clausole che obbligano i concorrenti a specificare nella propria offerta la consistenza degli oneri per la sicurezza in assenza conclamata di rischi, appare assolutamente meccanicistico e del tutto non pertinente con gli interessi sostanziali dell’Amministrazione l’applicazione di una norma basilare nel presidio di situazione giuridiche massimamente rilevanti, ma che anch’essa, anche per la sua natura centrale, va rispettata nei casi in cui sussistano quelle ragioni che è chiamata a presidiare” (Consiglio di Stato sez. V, 22.1.2014 n. 330).

I principi qui sopra espressi sono chiaramente applicabili ai servizi di brokeraggio assicurativo qualora l’attività, di ordine prettamente intellettuale, sia destinata a svolgersi in via esclusiva presso la sede della Società.

Né la complessa natura giuridica del contratto di brokeraggio assicurativo, riconducibile non solo all’attività di mediazione, ma anche quella di consulenza, vale a contraddire tale assunto posto che  anche lo

svolgimento di un’attività di intermediazione da parte del suo esecutore, mediante il compimento di operazioni di natura principalmente negoziale (…) in assenza pertanto di un’attività avente rilievo materiale, potenzialmente fonte di pericoli per i lavoratori coinvolti nella stessa(…) rientra pertanto a pieno titolo tra quelle eccezionalmente escluse dalla citata giurisprudenza del Consiglio di Stato (Sez. V, n. 5651/2015 e n. 1051/2016) dall’obbligo di indicazione degli oneri aziendali nell’offerta economica, trattandosi di servizi aventi ad oggetto un’attività prevalentemente intellettuale, nel senso chiarito dalla stessa, e quindi, in cui le prestazioni materiali sono del tutto marginali” (TAR Milano sez  IV, 21.4.2016 n. 755, conforme Consiglio di Stato, sez. V, 19.1.2017, n. 223 ) .

Si deve escludere altresì che l’entrata in vigore del nuovo Codice abbia sostanzialmente inciso su tali approdi giurisprudenziali.

Del resto anche la giurisprudenza che per prima ha avuto modo di pronunciarsi sulla nuova disposizione ha ritenuto che

in relazione alla dedotta violazione della norma di cui all’art. 95 comma 10 d.lgs. 50\2016 per mancata indicazione dei costi in materia di salute e sicurezza, pur condividendo l’impostazione di parte ricorrente circa la doverosità dell’indicazione ora imposta dalla norma, nel caso di specie l’offerta della controinteressata è stata accompagnata dalla compilazione del previsto modulo anche sul punto in questione;  considerato che, pur dinanzi ad un valore a prima vista del tutto anomalo (indicato come pari a 0), il dato formale dell’indicazione dei presunti costi sussiste, cosicchè la verifica in capo alla stazione appaltante si sposta sul versante dell’eventuale sostenibilità ed anomalia dell’offerta, non certo sul dedotto profilo formale della violazione della norma invocata” (T.A.R. Liguria-Genova, Sez.I, 2.3.2017, n. 163).

Né una diversa lettura del dettato normativo, potrebbe ritenersi costituzionalmente legittima.

Infatti laddove l’art. 95 comma 10 del D. Lgs. 50/2016 venisse intrepretato nel senso di imporre alle imprese concorrenti, a prescindere dall’oggetto della gara, di sostenere e dichiarare in una percentuale superiore allo zero oneri di sicurezza effettivamente e strutturalmente inesistenti, si porrebbe in evidente contrasto con:

(i) l’art. 41 Cost., poiché esigere il pagamento di oneri aggiuntivi non previsti per legge solo da parte di alcune imprese porrebbe un ingiustificato ostacolo al pieno dispiegamento del principio della libertà di iniziativa economica privata, impedendo che la concorrenza tra le imprese si svolga in condizioni paritarie;

(ii)  con gli art. 2 e 3 Cost. perché le norme denunciate comporterebbero un trattamento ingiustificatamente diverso tra le varie categorie di imprese (gravando unicamente le imprese attive nel settore dei contratti pubblici, ma non anche quelle che interagiscono con partner privati).

Tra l’altro si tenga presente che il fatto che la Stazione appaltante ritenga inammissibili “costi aziendali interni della sicurezza pari a 0 (zero)” (indicando quindi un valore presunto) non è neppure compatibile – dal punto di vista logico prima che giuridico – con  l’assunto per cui l’“indicazione degli oneri di sicurezza aziendali è rimessa alle singole imprese partecipanti, dato che trattasi di valutazioni soggettive rimesse alla loro esclusiva sfera valutativa. [in quanto n.d.r.] tale tipologia di oneri (…) varia da un’impresa all’altra ed è influenzata dalla singola organizzazione produttiva e dal tipo di offerta formulata da ciascuna impresa” (Adunanza plenaria 20 marzo 2015, n. 3).

 

Il broker assicurativo e gli appalti pubblici

L’attività del broker è ricompresa nella definizione di intermediazione assicurativa dettata dall’art. 106 d.lgs. 209/2005, consistente nel presentare o proporre prodotti assicurativi, o nel prestare assistenza e consulenza finalizzate a tale attività e, se previsto dall’incarico, nella conclusione dei contratti o nella collaborazione alla gestione o esecuzione, segnatamente nel caso di sinistri, dei contratti stipulati.

Come specificato dall’art. 109 d.lgs. 209/2005, il broker assicurativo si distingue dagli altri intermediari in quanto esercita un’attività volta a mettere in relazione con le compagnie, delle quali non può essere mandatario, i soggetti che intendano provvedere, con la sua collaborazione, alla copertura dei rischi. A tal fine, riceve specifici incarichi per la ricerca nel mercato e l’individuazione dei prodotti assicurativi meglio rispondenti alle esigenze dei suoi clienti.

Il broker, dunque, è essenzialmente un esperto del settore  assicurativo, al quale si rivolgono i soggetti per ottenere l’analisi, l’inquadramento e le condizioni economiche e normative migliori per la copertura dei rischi che intendono assicurare (così Fabio Amabili in Brokeraggio assicurativo: natura giuridica, obblighi e responsabilità)

Questa è la cifra distintiva propria dei broker e degli agenti, che rispetto agli altri intermediari assicurativi e ai tipici mediatori, non promuovono un singolo affare ma prima ancora la cultura assicurativa (Cass. 9836/2001 – v. qui).

Tale fattispecie atipica caratterizza l’attività del broker coi due elementi della mediazione e della consulenza. Tanto che in giurisprudenza frequente è la massima che lo individua quale mediatore qualificato, visto che la sua attività di mediazione deve essere il risultato di un’attività di assistenza e collaborazione col soggetto assicurando, parte debole del contratto, per individuarne le esigenze particolari e scegliere le condizioni migliori e più adatte (così marco Rossetti in Il diritto delle assicurazioni – vol. I – pag. 605)

La natura mista del contratto di brokeraggio, cui ormai da tempo ha aderito la giurisprudenza di legittimità, evidenzia proprio che la sua attività mediatizia è connotata da questi profili intellettuali.

Proprio per questo sempre più spesso gli enti pubblici ricorrono ai servizi dei broker, dovendo garantirsi di un’apposita e adeguata garanzia per i molteplici rischi insiti nelle attività svolte. (v. ancora così Fabio Amabili in Brokeraggio assicurativo: natura giuridica, obblighi e responsabilità

Infatti, rispetto agli altri incarichi, quelli svolti per la Pubblica Amministrazione richiedono e prevedono principalmente la prestazione intellettuale di consulenza e assistenza professionale, rispetto a quella tipica di intermediazione che invece è devoluta per legge ad apposita gara e non alla libera attività del broker.
Per gli enti pubblici il broker è chiamato soprattutto a valutare i rischi, ad assistere nell’impostazione dei programmi assicurativi necessari, e a mettere a punto i bandi di gara per la selezione degli assicuratori e la determinazione del contenuto della polizza assicurativa, oltre che ad affiancarli nella successiva fase di gestione ed esecuzione dei contratti assicurativi.
Come facilmente se ne ricava, la prestazione intellettuale prevale di gran lunga in questi casi sulla quasi assente attività di mediazione.

Quale che sia la natura del broker, commerciale o invece intellettuale, essa non ha peraltro alcuna ricaduta con riferimento ai presidi e alle misure di sicurezza.
infatti, il broker assisterà l’ente pubblico con la propria struttura, che opererà esattamente allo stesso modo che per gli altri clienti, senza che l’incarico pubblico comporti variazioni di luogo e di attività e quindi di rischio.

Il broker non deve dunque far fronte ad alcun onere di sicurezza aggiuntivo.

Di tale situazione ha preso chiaramente atto il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. V –  N. 01051/2016 ), proprio con riferimento ai broker assicurativi che svolgano la propria attività per enti pubblici ha così correttamente statuito:

 

Oggetto d’appalto è il servizio di consulenza assicurativa e brokeraggio in favore della Regione Liguria, un’attività intellettuale svolta per lo più nei locali dell’impresa prestatrice del servizio.
La consulenza assicurativa s’esaurisce in se stessa, ossia costituisce l’oggetto essenziale e (per chi riconosca la categoria concettuale) il contenuto esclusivo del contratto, senza essere comportare in via complementare, strumentale ed accessoria l’esecuzione di prestazioni materiali che espongano (ad esempio: l’attività di progettazione di oo.pp.) il personale ad eventuali rischi o pericoli.
In definitiva i servizi in questione non presentano i rischi specifici cui applicare la disposizione contenuta all’art. 87, comma 4, d.lgls n. 163/2006 e gli arresti giurisprudenziali richiamati in sentenza (Cons. St., ad. plen. 3 e 9 del 2015) che, testualmente, riguardano i costi inerenti alla sicurezza aziendale per l’esecuzione delle prestazioni dedotte nel contratto oggetto d’appalto.
Che, oltretutto, diversamente da quanto reputa la società appellata, non sono teleologicamente assimilabili ai costi intesi a garantire lo standard legale di sicurezza della sede aziendale ove i dipendenti svolgono le mansioni cui sono ordinariamente addetti.
Né l’onere dichiarativo di costi ontologicamente – ancor prima che giuridicamente – insussistenti è prescritto dall’art. 18 del capitolato speciale
.”

 

CREDITS:

Fabio Amabili in Brokeraggio assicurativo: natura giuridica, obblighi e responsabilità

Marco Rossetti, Il Diritto delle Assicurazioni, vol. I, Cedam 2011, Pag. 605