Danno biologico di lieve entità, presupposti di risarcibilità: la Cassazione torna sull’argomento

 

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Con ordinanza n. 22066 dd. 11.09.2018 la Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su un tema assai dibattuto in materia di danno biologico c.d. di lieve entità e, in particolare, sui limiti di applicazione delle previsioni contenute nell’art. 32, commi 3ter e 3quater del d.l. n. 1/2012, convertito in legge n. 27/2012. Prima di passare all’analisi di tale pronuncia, si ritiene opportuno affrontare un breve excursus del travagliato percorso legislativo, interpretativo ed applicativo delle succitate norme. Come noto, le disposizioni in commento prevedono quanto segue:

3- ter. Al comma 2 dell’articolo 139 del codice delle assicurazioni private di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: ” In ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente“.

3- quater. Il danno alla persona per lesioni di lieve entità di cui all’articolo 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, è risarcito solo a seguito di riscontro medico legale da cui risulti visivamente o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione.

Le norme, che certa parte della dottrina riconduce ad un piano di applicazione più processuale (ritenendole relative in senso stretto alla prova del danno di cui si chiede ristoro) che sostanziale, furono accompagnate sin dalla fase di elaborazione legislativa da alcune annotazioni che, pur estremamente succinte, ne coglievano possibili profili di criticità. Lo stesso Servizio Studi della Camera dei Deputati non mancava di osservare quanto segue:

Al riguardo si ritiene opportuno un chiarimento della portata delle disposizioni, considerando che le due norme presentano un campo di applicazione comune, ma sembrano contenere profili contradditori. Infatti, mentre il comma 3- ter esclude il risarcimento del danno biologico “ permanente” nel caso in cui le lesioni non siano suscettibili di “accertamento clinico strumentale obiettivo”, il comma 3- quater ammette il risarcimento (senza specificare se a titolo di danno biologico permanente o temporaneo) qualora vi sia un riscontro medico legale da cui risulti “ visivamente” o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione.

 

Criticità applicative ed interpretative che portavano financo ad investire la Corte Costituzionale della questione di legittimità delle norme in commento, in relazione specificamente agli articoli 3, 24 e 32 della Costituzione: il possibile vulnus veniva individuato per quei «piccoli danni che non possono essere oggetto di riscontri diagnostici strumentali, bensì solo di un giudizio medico di plausibilità ed attendibilità, senza possibilità […] di una conferma strumentale». Con ordinanza n. 242/2015, dunque, la Corte facendo seguito alla precedente sentenza n. 235/2014 dichiarava manifestamente infondata la questione e fissava alcuni principi importanti, chiarendo sempre dalla prospettiva della legittimità costituzionale come, da un lato, la necessità di un riscontro strumentale dovesse essere esclusa per i danni temporanei e richiesta solo per quelli a carattere permanente e, dall’altro, come:

la limitazione imposta al correlativo accertamento (che sarebbe altrimenti sottoposto ad una discrezionalità eccessiva, con rischio di estensione a postumi invalidanti inesistenti o enfatizzati) è stata, infatti, già ritenuta rispondente a criteri di ragionevolezza, in termini di bilanciamento, «in un sistema, come quello vigente, di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurata, in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici, e nel quale l’interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi».

In tale contesto i Tribunali di legittimità hanno, seppur con qualche voce discordante, assunto una posizione che pare ben riassunta nella sentenza dd. 08.01.2015 del Tribunale di Bologna. È quindi stato osservato che:

Secondo la migliore scienza medico-legale, vi è evidenza visiva o strumentale di un danno anatomico, in tutti quei casi in cui, anche in assenza di reperti visivi o strumentali, l’analisi medico-legale porta comunque a ritenere “evidente” il ricorrere di una patologia traumatica; tale evidenza non sussiste quando le mere allegazioni di soggettività e/o le prime certificazioni redatte a distanza di tempo dal sinistro, al vaglio medico-legale risultano non compatibili con quel sinistro, attestando lesioni che la violenza dell’urto, per la sua irrisorietà, non può giustificare.

Si può concludere quindi che, ove l’analisi medico-legale di cui sopra riscontri positivamente la lesione denunciata, l’accertamento della lesione del bene salute e dei pregiudizi consequenziali non è presunto sulla base di mera sintomatologia soggettiva, ma è verificato obiettivamente in contraddittorio tra tutte le parti ed i loro consulenti, non lasciando spazio a facili narrazioni e/o simulazioni da parte della (falsa) vittima.

Nello stesso solco, il Tribunale di Ascoli Piceno ha recentemente (sentenza dd. 14.11.2017) statuito che:

In altri termini, la novella in esame ha inteso chiarire che la lesione alla salute può essere provata – anche mediante presunzioni, in base alle ordinarie norme codicistiche – “visivamente o strumentalmente“, non essendo più ammissibile desumere tale prova soltanto dalla sintomatologia della vittima. In altri termini si è stabilita la regola per cui la presunzione fornita in giudizio è grave e precisa allorché sia stata accertata la lesione alla salute visivamente o strumentalmente.

Per tale via, dunque, secondo la migliore scienza medico legale, vi è evidenza visiva o strumentale di un danno fisico allorché – anche in assenza di reperti visivi o strumentali, l’analisi medico-legale porta comunque a ritenere ” evidente” il ricorrere di una patologia traumatica.

Ad avviso dello scrivente, le succitate pronunce vanno incontro a profili di criticità che, va evidenziato, sono il portato di una formulazione legislativa tutt’altro che cristallina. In primo luogo, si ritiene che con la succitata sentenza il Tribunale di Bologna abbia confuso due piani in realtà ben distinti, e cioè da un lato l’«evidenza visiva o strumentale» richiesta per l’accertamento del danno biologico e dall’altro la compatibilità di tale danno con l’evento dedotto in causa. Quest’ultimo profilo, infatti, attiene in prima battuta la sussistenza di un nesso causale tra il danno e il fatto e non già, quindi, l’accertamento e la successiva conseguente valutazione di quel danno.

In secondo luogo, entrambe le succitate pronunce pongono sul medesimo piano i criteri scientifici di accertamento clinico-strumentale-visivo, attingendo indifferentemente e senza alcuna gerarchia né ordine predefinito all’uno o all’altro. Invero, si ritiene che mentre i primi (clinico-strumentale) afferiscano per esplicita volontà del legislatore il solo danno permanente, il secondo (visivo) riguardi sì il danno permanente, rappresentandone di fatto un elemento valutativo ultroneo che per certo non si sostituisce ai primi due, ma attenga in via ulteriore e precipua il danno temporaneo, costituendone in questo caso un presupposto di risarcibilità e valutazione differente ed alternativo rispetto a quelli clinico e strumentale. Tale interpretazione è suffragata dalla stessa Corte costituzionale che, con la sentenza n. 235/2014 già sopra richiamata, sull’art. 32, commi 3ter e 3quater esponeva quanto segue:

Tali nuove disposizioni – [omissis] – rispettivamente comportano, per tali lievi lesioni:

− la necessità di un “ accertamento clinico strumentale” (di un referto di diagnostica, cioè, per immagini) per la risarcibilità del danno biologico permanente;

− la possibilità anche di un mero riscontro visivo, da parte del medico legale, per la risarcibilità del danno da invalidità temporanea.

Se dunque in entrambe le citate sentenze di merito si fa riferimento ad un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni di cui qui si discute, al contempo si ritiene che un’attenta e puntuale interpretazione del dettato normativo dovrebbe in realtà condurre ad una differenziazione dei presupposti di accertamento e valutazione del danno biologico tra permanente e temporaneo, nel senso di cui si è appena dato conto.

La recente sentenza n. 22066/2018 della Corte di Cassazione richiamata in esordio di questo intervento, facendo seguito ad altre pronunce di contenuto simile, introduce ulteriori spunti, fissando principi applicativi e di interpretazione di indubbio interesse. La Suprema Corte ha infatti enucleato come:

[omissis] l’accertamento clinico strumentale obiettivo non potrà in ogni caso ritenersi l’unico mezzo probatorio che consenta di riconoscere tale lesione a fini risarcitori, a meno che non si tratti di una patologia, difficilmente verificabile sulla base della sola visita del medico legale, che sia suscettibile di riscontro oggettivo soltanto attraverso l’esame clinico strumentale.

Ed ancora:

[omissis] alla stregua di tale principio, cui il Collegio intende dare continuità, deve dunque ritenersi che, ferma restando la necessità di un rigoroso accertamento medico-legale da compiersi in base a criteri oggettivi, la sussistenza dell’invalidità permanente non possa essere esclusa per il solo fatto che non sia documentata da un referto strumentale per immagini, sulla base di un automatismo che vincoli, sempre e comunque, il riconoscimento dell’invalidità permanente ad una verifica di natura strumentale.

La Corte di Cassazione ha dunque chiarito, tra l’altro, come ai fini dell’accertamento di una lesione all’integrità psico-fisica ci si debba attenere a rigorosi ed oggettivi criteri medico-legali, senza tuttavia che sia richiesto un referto strumentale per immagini. A sommesso avviso dello scrivente, tale principio pare condivisibile solo laddove, secondo una riconosciuta e condivisa prassi medico-legale nella quale per evidenti ragioni non ci si addentra, possa ipotizzarsi un accertamento strumentale che non sia, per l’appunto, «per immagini». Qualora invece non possa darsi altro accertamento strumentale se non quello per immagini, si ritiene che l’interpretazione fatta propria dalla Suprema Corte conduca di fatto ad una sostanziale disapplicazione dell’art. 32, comma 3ter del d.l. n. 1/2012, convertito in legge n. 27/2012. Il richiamo che la sentenza in commento opera della precedente pronuncia n. 1272/2018 della Suprema Corte farebbe propendere, in realtà, proprio per questa seconda possibilità. Ed infatti la Cassazione si era già sul punto così espressa:

Il rigore che il legislatore ha dimostrato di esigere – che, peraltro, deve caratterizzare ogni tipo di accertamento in tale materia – non può essere inteso, però, come pure alcuni hanno sostenuto, nel senso che la prova della lesione debba essere fornita esclusivamente con l’accertamento clinico strumentale;[omissis] infatti, è sempre e soltanto l’accertamento medico legale svolto in conformità alle leges artis a stabilire se la lesione sussista e quale percentuale sia ad essa ricollegabile. E l’accertamento medico non può essere imbrigliato con un vincolo probatorio che, ove effettivamente fosse posto per legge, condurrebbe a dubbi non manifestamente infondati di legittimità costituzionale, posto che il diritto alla salute è un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione e che la limitazione della prova della lesione del medesimo deve essere conforme a criteri di ragionevolezza.

Nella sostanza, quindi, secondo l’orientamento allo stato maggioritario sia nella giurisprudenza di merito (di cui si sono sopra citate due pronunce tra le molte di simile contenuto) che di legittimità, ai fini dell’accertamento della lesione dell’integrità psico-fisica, nonché della successiva e conseguente valutazione del danno, i criteri scientifici clinico-strumentale-visivo debbono essere intesi in via paritaria ed alternativa, con una commistione dei piani applicativi degli art. 32, commi 3ter e 3quater, pur dichiaratamente distinti tra danno permanente danno temporaneo. Si ritiene, d’altro canto, che la richiamata necessità di un accertamento medico legale svolto in conformità alle leges artis e non già quello di un esame clinico-strumentale conduca come accennato ad una sostanziale disapplicazione delle norme in commento, difficilmente motivabile sulla scorta di un potenziale profilo di illegittimità costituzionale che la stessa Corte costituzionale ha esplicitamente escluso.

Pare dirimente, in conclusione, rammentare come la valutazione circa l’antigiuridicità di un fatto e la meritevolezza di una tutela risarcitoria del danno che ne può conseguire, qualora coerenti con l’impianto costituzionale del nostro ordinamento, costituiscano scelte prettamente ed esclusivamente legislative. Rimane certamente, ad avviso di chi scrive, un contesto nel quale la non felice formulazione delle norme in commento non è stata e non è d’ausilio per gli operatori del diritto: circostanza, questa, che imporrebbe un ulteriore intervento riformatore, posto che la recente introduzione della legge n. 124/2017 non ha per certo gettato nuova luce sulla questione.

Surroga Inail e differenziale: note a margine di Cass. 21961/18 e Finanziaria 2019

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Con la sentenza n. 21961 dd. 10.09.2018, la Corte di Cassazione è intervenuta a chiarire i presupposti e i limiti dell’azione di surrogazione di cui è titolata l’Inail nei confronti del responsabile civile.

I giudici di legittimità hanno innanzitutto descritto i tipi di danno suscettibili d’indennizzo da parte dell’assicuratore sociale, ricordando che

“L’Inail indennizza due tipi di danno, il danno biologico, sotto forma di rendita, ai sensi dell’art.  13 del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 e il danno patrimoniale nei seguenti profili: la riduzione della capacità di guadagno (che la legge, ai fini dell’assicurazione sociale, presume juris et de jure quando l’invalidità biologica sia superiore al 16 per cento e viene liquidata); la perdita del salario durante il periodo di assenza per malattia (che l’Inail indennizza col pagamento d’una indennità giornaliera pari al 60 per cento della retribuzione, ai sensi dell’art.  68, comma primo, d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124); le spese sanitarie (che l’Istituto è tenuto ad anticipare ai sensi degli artt.  86 e ss. d.P.R. n. 1124cit.).”

Osservano quindi che il primo dei tre pregiudizi patrimoniali, ossia la riduzione della capacità di guadagno, siccome presunta juris et de jure, è

“indennizzato dall’Inail anche quando la vittima dell’infortunio non abbia patito, o non abbia dimostrato di avere patito, alcun pregiudizio da lucro cessante derivato dalla perdita della capacità di lavoro e di guadagno; l’incremento della rendita, infatti, viene erogato dall’Inail senza alcun accertamento concreto circa l’esistenza d’un danno patrimoniale, che la legge – nell’ottica compensativa tipica dell’assicurazione sociale – presume esistente juris et de jure quando l’invalidità permanente sia superiore al 16 per cento.”

Ne consegue, coerentemente, che – a differenza dell’indennità giornaliera e delle spese mediche, che l’Inail riconosce al lavoratore assicurato solo quando questi effettivamente si assenti dal lavoro o sostenga costi per le cure – al contrario

“l’accoglimento della domanda di surrogazione dell’Inail, per gli importi pagati a titolo di incremento della rendita per danno patrimoniale presunto, presuppone l’accertamento che la vittima abbia effettivamente patito un danno civilistico alla capacità di lavoro, in assenza del quale nessuna surrogazione sarà possibile.”

Senza tale dimostrazione, infatti, il surrogante non porterebbe alcuna prova a dimostrazione del danno patito dal surrogato, in luogo del quale pretende la ripetizione delle somme.

La condivisibile logica della pronuncia in esame collide potenzialmente con la posizione cristallizzata dalla Corte in pronunce di poco precedenti, tra cui si cita l’ultima (Cass. Civ., 21.11.2017, n. 27669, che si adegua alle istruzioni del dott. Rossetti contenute in ord. 30.08.2017, n. 17407), stando alle quali

“in tema di liquidazione del danno biologico c.d. differenziale, di cui il datore di lavoro è chiamato a rispondere nei casi in cui opera la copertura assicurativa INAIL in termini coerenti con la struttura bipolare del danno-conseguenza, va operato un computo per poste omogenee, sicché, dall’ammontare complessivo del danno biologico va detratto, non già il valore capitale dell’intera rendita costituita dall’INAIL, ma solo il valore capitale della quota di essa destinata a ristorare, in forza dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata alla retribuzione ed alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato, volta all’indennizzo del danno patrimoniale (v. Cass. lav. n. 20807 del 14 ottobre 2016).”

Il punto di potenziale collisione giace nell’osservazione che, laddove correttamente si ritenga di non dar seguito alla surrogazione dell’Inail per voci civilisticamente non sussistenti, nella complementare liquidazione del differenziale in favore del lavoratore danneggiato colui che non abbia patito alcun danno patrimoniale alla capacità di lavoro otterrebbe lo stesso trattamento di colui che lo avesse invece patito in misura tale da assorbire economicamente la quota patrimoniale della rendita Inail.

Non deve sfuggire, a riguardo, che uno dei cardini che sorreggono la teoria dello scomputo posta per posta è proprio il fine di evitare una (in realtà mai sino in fondo dipanata) differenza di trattamento tra vittima- lavoratore dipendente e vittima-lavoratore non dipendente. Differenza che, in realtà, proprio il danno differenziale annulla civilisticamente.

Al contrario, come visto e in maniera più evidente e grave, la sottrazione voce per voce è potenzialmente foriera di una disparità di trattamento tra vittime del sinistro che, quali lavoratori dipendenti, condividono la medesima situazione di fatto e diritto.

Si deve poi tener conto dello scardinamento del secondo puntello di questa regola di scomputo. Questo secondo cardine è costituito, come si ricorderà, dall’addotta differente finalità tra indennità sociale e risarcimento civilistico, differenza che consentirebbe il cumulo tra i due importi.

Tuttavia, tale teoria pare mal conciliarsi sia con il dettato dell’art. 13 d.lgs. 38/2000, sia col principio indennitario, stando al quale il trasferimento del rischio (in questo caso, dal lavoratore all’Inail) non può costituire fonte di lucro per il lavoratore in quanto l’indennizzo deve svolgere unicamente la funzione di riparare il danno subito dall’assicurato.

A chiarire definitivamente il quadro è ora intervenuta la Finanziaria 2019, che all’art. 10 dPR 1124/1965 ha introdotto con un nuovo comma la regola che

“non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo, complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo, non ascende a somma maggiore dell’indennità che a qualsiasi titolo ed indistintamente, per effetto del presente decreto, è liquidata all’infortunato o ai suoi aventi diritto”,

smentendo così a livello legislativo il secondo cardine su cui regge(va) la regola dello scomputo per poste omogenee.