Locazioni: in caso di danni all’immobile il conduttore paga anche i canoni per il periodo necessario per i lavori di ripristino

Come noto, in forza di quanto previsto dal primo comma dell’art. 1590 c.c.,

«il conduttore deve restituire la cosa al locatore nello stato medesimo in cui l’ha ricevuta, in conformità della descrizione che ne sia stata fatta dalle parti, salvo il deterioramento o il consumo risultante dall’uso della cosa in conformità del contratto».

L’applicazione di tale disposizione di legge ha animato, in passato, un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale, arricchitosi con il recente pronunciamento della Corte di Cassazione (ordinanza n. 6956 dd. 07.03.2019). La Suprema Corte, in particolare, ha avuto modo di evidenziare come qualora al momento della riconsegna dell’immobile locato quest’ultimo presenti dei danni eccedenti il normale degrado dovuto al suo utilizzo, il conduttore sarà tenuto al risarcimento del relativo danno. Tale danno – ed è qui l’aspetto più interessante della sentenza – include non solo il costo delle opere necessarie per ripristinare l’immobile allo stato precedente ma anche, in via ulteriore, il canone di locazione per tutto il periodo (mesi o frazioni di mesi) necessario per l’esecuzione e il completamento di tali lavori.

Ai fini dell’ottenimento di questa ulteriore voce di danno, quella per l’appunto consistente nella corresponsione dei canoni di locazione per il – ragionevole – periodo in cui verranno svolti i lavori, sempre secondo la Corte di Cassazione il locatore non dovrà necessariamente provare di aver ricevuto da parte di soggetti terzi richieste per la locazione per quel medesimo periodo. In altri termini: si avrà diritto ad ottenere questa voce di risarcimento anche se non si proverà di aver dovuto rinunciare ad altre concrete offerte di locazione proprio per quell’immobile. Sul punto, il recente pronunciamento della Suprema Corte si inserisce all’interno di un solco giurisprudenziale già consolidato da tempo (nello stesso senso si registrano, ad esempio, le sentenze dei giudici di legittimità nn. 6798/93 e 19202/11), che dunque viene ulteriormente rafforzato e confermato.

Si riporta infine, per completezza, uno stralcio della pronuncia n. 6956/2019 qui in commento:

«Infatti, secondo un principio ormai generalissimo – codificato dall’art. 1591 c.c. – “il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto, fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno”. È palese, pertanto, che ogniqualvolta il locatore per fatto del conduttore, non può disporre della cosa locata, lo stesso ha diritto a conseguire “il corrispettivo convenuto”, nonché eventuali danni, ulteriori, ove ne dimostri l’esistenza. Sempre al riguardo – inoltre – non può tacersi che si ha “mancata disponibilità” della cosa locata non solo allorché, scaduto il termine per la restituzione il conduttore non vi provveda, ma anche tutte le volte in cui, per fatto imputabile al conduttore, il locatore non può trarre, dalla cosa, alcun vantaggio, come – ad esempio, nell’ipotesi in cui l’immobile presenti, alla riconsegna (e quindi dopo la restituzione, eventualmente ritardata a norma dell’art. 1591 c.c.) danni eccedenti il degrado dovuto a normale uso dello stesso, con conseguente sua inutilizzabilità per tutto il periodo per il quale si protraggono i lavori di ripristino».

Da un punto di vista operativo, dunque, sarà importante per il locatore da un lato dare dimostrazione di aver consegnato l’immobile a determinate condizioni accettate dal conduttore – in tal senso, dunque, assume rilevanza decisiva tra l’altro il verbale di consegna o le specifiche pattuizioni di contratto – e, dall’altro, contestare e documentare tempestivamente i danni rilevati nell’immobile stesso. In tale contesto, come accennato, il locatore stesso avrà in linea generale diritto ad ottenere ristoro anche del danno consistente nella mancata locazione per il periodo necessario per portare avanti e concludere i lavori, purché ovviamente ciò avvenga in un tempo ragionevole.

Privacy e GDPR, il ruolo del consulente del lavoro

Il 22 gennaio scorso il Garante per la privacy ha pubblicato sul proprio sito internet (qui il link) risposta ad un quesito avente ad oggetto “il ruolo del consulente del lavoro dopo la piena applicazione del Regolamento (UE) 679/2016”. Con l’occasione il Garante ha fissato alcuni principi cardine relativi proprio al trattamento dei dati personali da parte del consulente del lavoro, specificando quanto segue:

nel momento in cui il consulente stesso tratta dati dei propri dipendenti, ovvero dei propri clienti, egli figura chiaramente quale titolare del trattamento dei dati ai fini della normativa privacy, con tutto ciò che ne consegue in termini di responsabilità, compiti ed incombenze;
al contrario, laddove il consulente tratti dati dei dipendenti del cliente, egli svolge un’attività delegata da quest’ultimo (titolare del trattamento) e di conseguenza figura non già come contitolare ma come responsabile esterno di tale trattamento.
Nella prassi, quindi, si avrà che il titolare del trattamento dei dati, la cui figura rimane corretamente ancorata in capo al cliente, sottoscriverà con il proprio consulente del lavoro un contratto nel quale, tra l’altro, verrano definiti proprio gli aspetti relativi al trattamento dei dati personali, chiarendone il contesto, le finalità e le specifiche modalità, in un quadro nel quale come accennato il consulente del lavoro troverà puntuale inquadramento nella figura del responsabile c.d. “esterno”.

Si riporta uno stralcio del succitato intervento del Garante:

[…] occorre fare riferimento alla figura del responsabile, che, anche in base alla nuova disciplina pienamente in vigore nel nostro ordinamento a far data dal 25 maggio 2018 rimane connotata dallo svolgimento di attività delegate dal titolare il quale, all’esito di proprie scelte organizzative, può individuare un soggetto particolarmente qualificato allo svolgimento delle stesse (in termini di conoscenze specialistiche, di affidabilità, di struttura posta a disposizione, v. considerando 81, Reg. cit.), delimitando l’ambito delle rispettive attribuzioni e fornendo specifiche istruzioni sui trattamenti da effettuare. Il titolare pertanto è il soggetto che, alla luce del concreto contesto nel quale avviene il trattamento, assume le decisioni di fondo relative a finalità e modalità di un trattamento lecitamente effettuato in base ad uno dei criteri di legittimazione individuati dall’ordinamento (v. artt. 6 e 9 del Regolamento).

In tale contesto, peraltro, il Garante ha avuto modo di specificare come

L’affidamento dell’incarico al consulente avverrà, anche in base alle norme di diritto comune applicabili, attraverso la sottoscrizione di un “ contratto o altro atto giuridico” stipulato concordemente dalle parti tenendo conto dei compiti in concreto affidati, del contesto, delle finalità e modalità del trattamento, e non in base a modelli non aderenti alle circostanze del caso concreto o imposti unilateralmente.
In altri e più chiari termini e, per inciso, in maniera coerente rispetto all’impianto c.d. di privacy by desing che fa parte dell’ossatura del GDPR, l’Autorità ritiene centrale il fatto che l’accordo negoziale tra il titolare del trattamento dati e il responsabile esterno (consulente del lavoro) non si “appiattisca” in un documento standard ma sia il risultato di un’effettiva negoziazione tra le parti, nel quale segnatamente i compiti e gli obblighi in materia privacy siano stati correttamente perimetrati in base alle singole esigenze del caso.

I collaboratori del consulente del lavoro, infine, saranno inquadrabili nell’alveo applicativo dell’art. 29 del Regolamento GDPR, in quanto soggetti tenuti al rigoroso rispetto delle direttive e delle istruzioni del responsabile esterno. Qualora, invece, agli stessi fosse riconosciuto un margine gestionale ed operativo maggiore, ben si potrà ricorrere alla figura del sub-responsabile, previa autorizzazione del titolare. Sul punto, in particolare, si riporta quanto segue:

Qualora il consulente si avvalga normalmente di collaboratori di propria fiducia (come rappresentato dal Consiglio dell’Ordine nella nota del 3.12.2018) questi, in base alle concrete operazioni di trattamento affidate, potranno operare sotto la sua diretta autorità e in base alle istruzioni impartite, configurando il rapporto preso in considerazione dall’art. 29 del Regolamento. Più specificamente, in base all’art. 2- quaterdecies del Codice il responsabile può prevedere che “ specifici compiti e funzioni connessi al trattamento siano attribuiti a persone fisiche, espressamente designate, che operano sotto la loro autorità” Oppure, diversamente, i collaboratori potranno assumere in concreto il ruolo di subresponsabili, qualora sia demandata “ l’esecuzione di specifiche attività di trattamento per conto del titolare” (v. art. 28, par. 4 del Regolamento). In tale ipotesi, anche al fine di impedire l’elusione della norma che prevede che il titolare debba ricorrere a soggetti che forniscano specifiche garanzie di affidabilità, competenza e organizzazione, il paragrafo 2 dell’art. 28 prevede che il relativo atto di incarico debba essere autorizzato, anche in via generale (dunque non necessariamente specifica) dal titolare.

Codice della Crisi d’impresa e tutela degli acquirenti di immobili da costruire

Il Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza, recentemente introdotto dal d.lgs. n. 14/2019, ha regolamentato tra l’altro la materia degli immobili da costruire, intervenendo nel contesto di una disciplina che muove dalla dichiarata finalità di approntare una tutela il più possibile efficace ed incisiva a favore degli acquirenti, in specie in caso di ipotesi di fallimento (o meglio, liquidazione giudiziale) delle imprese costruttrici.

Come noto, sul punto il primo organico progetto normativo risale al 2005 (segnatamente, al d.lgs. n. 122/2005), grazie al quale sono state previste delle forme di garanzia a favore delle persone fisiche promissarie acquirenti o acquirenti di un immobile “da costruire”, con ciò dovendosi intendere un immobile per il quale sia stato richiesto il permesso di costruire ma che sia ancora in tutto o in parte da edificare e, dunque, non ancora corredato dal corrispondente certificato di agibilità.

Le tutele accordate dalla normativa in commento divengono effettive ed invocabili laddove il costruttore versi in uno stato di crisi e, dunque, come previsto dall’art. 1 del succitato d.lgs., quando

[…] il costruttore sia sottoposto o sia stato sottoposto ad esecuzione immobiliare, in relazione all’immobile oggetto del contratto, ovvero a fallimento, amministrazione straordinaria, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa; […]
In prima battuta, l’art. 2 del d.lgs. n. 122/2005 prevede che il costruttore, al momento della stipula di un contratto che abbia come finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire, sia obbligato

[…] a pena di nullità del contratto che può essere fatta valere unicamente dall’acquirente, a procurare il rilascio ed a consegnare all’acquirente una fideiussione, anche secondo quanto previsto dall’articolo 1938 del codice civile, di importo corrispondente alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso e, secondo i termini e le modalità stabilite nel contratto, deve ancora riscuotere dall’acquirente prima del trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento.
In secondo luogo, a mente dell’art. 4 del medesimo d.lgs., è disciplinato quanto segue:

Il costruttore è obbligato a contrarre ed a consegnare all’acquirente all’atto del trasferimento della proprietà a pena di nullità del contratto che può essere fatta valere solo dall’acquirente, una polizza assicurativa indennitaria decennale a beneficio dell’acquirente e con effetto dalla data di ultimazione dei lavori a copertura dei danni materiali e diretti all’immobile, compresi i danni ai terzi, cui sia tenuto ai sensi dell’articolo 1669 del codice civile, derivanti da rovina totale o parziale oppure da gravi difetti costruttivi delle opere, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, e comunque manifestatisi successivamente alla stipula del contratto definitivo di compravendita o di assegnazione.
In sostanza, si comprende come l’intervento legislativo del 2005 fosse animato, tra l’altro, dalla volontà di accordare una doppia tutela a benefico dei promissari acquirenti o acquirenti di immobili da costruire: la prima, sostanziatasi nella garanzia fideiussoria, relativa all’arco temporale precedente al passaggio in proprietà dell’immobile e la seconda, strutturalmente correlata alla previsione codicistica di cui all’art. 1669 c.c., legata invece ad un periodo successivo a tale passaggio in proprietà e per un arco temporale di dieci anni.

Dando compimento alla delega di cui alla legge n. 155/2017, come anticipato il legislatore è nuovamente e recentemente intervenuto sulla stessa materia proprio per mezzo delle previsioni del Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza. In particolare e per ciò che interessa in questa sede, in forza dell’art. 387 del medesimo Codice, trova oggi formale attuazione la prescrizione posta dall’art. 12 della stessa legge n. 155/2017, qui di seguito riportata:

[…] al fine di garantire il controllo di legalità da parte del notaio sull’adempimento dell’obbligo di stipulazione della fideiussione di cui agli articoli 2 e 3 del decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 122, nonché dell’obbligo di rilascio della polizza assicurativa indennitaria di cui all’articolo 4 del medesimo decreto legislativo, [omissis] l’atto o il contratto avente come finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire, nonché qualunque atto avente le medesime finalità, [deve, nda] essere stipulato per atto pubblico o per scrittura privata autenticata; […]
Ed ancora, a mente dell’art. 385 del Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza, nel solco di quanto già prima disciplinato dall’art. 4 del succitato d.lgs. n. 122/2005, è espressamente previsto che la mancata consegna della polizza assicurativa al momento della stipula del rogito sia causa di nullità relativa del contratto, dunque legittimamente invocabile dal solo acquirente. A ciò si aggiunga l’obbligo di menzionare nell’atto di trasferimento dell’immobile gli estremi identificativi della polizza assicurativa medesima. Ad ulteriore rafforzamento delle tutele accordate agli acquirenti e promissari acquirenti, la recente novella legislativa prevede che la fideiussione di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 122/2005 possa essere escussa non solo qualora ricorra una delle “situazioni di crisi” di cui si è già sopra dato conto, ma in via ulteriore anche allorquando il costruttore abbia omesso di consegnare la polizza assicurativa entro il termine fissato per il rogito.

Come si evince dalla pur succinta analisi qui condotta, dunque, con il Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza il Legislatore delegato è intervenuto nella materia degli immobili da costruire, di fatto dando formale attuazione alle direttive contenute nella precedente legge delega del 2017 e, ancor prima, nel solco della riforma del 2015. Il tutto, dunque, in un rapporto di continuità e coerenza con la precedente disciplina. Alcune marginali novità riguardano, tra l’altro, le indicazioni afferenti la qualità dei soggetti legittimati a rilasciare le garanzie fideiussorie di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 122/2005 e i modelli di garanzie e polizze demandati alla regolamentazione ministeriale.

Quanto all’entrata in vigore della disciplina in commento, l’art. 389 (commi 2 e 3) del Codice prevede che

[…] Gli articoli 27, comma 1, 350, 356, 357, 359, 363, 364, 366, 375, 377, 378, 379, 385, 386, 387 e 388 entrano in vigore il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del presente decreto.
Le disposizioni di cui agli articoli 3 e 4 del decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 122, come modificati dagli articoli 385 e 386 del presente codice, si applicano anche nelle more dell’adozione dei decreti di cui agli articoli 3, comma 7-bis, e 4, comma 1-bis, del predetto decreto legislativo e il contenuto della fideiussione e della polizza assicurativa è determinato dalle parti nel rispetto di quanto previsto dalle richiamate disposizioni.
In sostanza, quindi, le norme relative al tema degli immobili da costruire, nel senso sopra precisato, entreranno in vigore a partire dal 16 marzo p.v. e troveranno piena applicazione anche nelle more dell’emanazione dei decreti ministeriali cui il legislatore ha demandato la predisposizione dei modelli di fideiussione e polizza assicurativa.

La domanda giudiziale inammissibile è idonea ad interrompere la prescrizione?

ecco il nostro intervento

 Con la sentenza n. 29609 dd. 16.11.2018 la Corte di Cassazione, facendo seguito alle precedenti pronunce nn. 1516/2016 – SS.UU. -, 23017/2012 e 24808/2005, ha ribadito quanto segue:

“il principio sancito dall’art. 2945, comma 2, c.c., secondo cui l’interruzione della prescrizione determinata dalla proposizione della domanda giudiziale si protrae fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, trova [omissis] deroga soltanto nel caso di estinzione del processo, e resta pertanto anche applicabile anche nell’ipotesi in cui detta sentenza […] si sia limitata a definire eventuali questioni di carattere pregiudiziale, purché essa sia stata pronunciata nell’ambito di un rapporto processuale della cui esistenza le parti siano a conoscenza [omissis]”

Nel caso dal quale è scaturita la sopraccitata pronuncia dei giudici di legittimità, nello specifico, parte attrice aveva instaurato un giudizio volto ad ottenere il risarcimento del danno patito per occupazione illegittima di immobile. In fase di impugnazione, successiva alla sentenza di primo grado, gli attori avevano per la prima volta formulato in via subordinata domande di determinazione delle indennità di occupazione ed espropriazione, dichiarate inammissibili in quanto nuove.

In tale contesto, la Suprema Corte ha non solo ritenuto che l’atto d’appello avesse esplicato efficacia interrutiva dei termini prescrizionali anche in ordine proprio a quelle domande dichiarate inammissibili all’esito della fase di gravame, ma ancor più significativamente che tale efficacia non fosse meramente istantanea, ma ricadesse nell’ambito applicativo dell’art. 2945, comma 2, c.c..

Secondo la posizione della Corte, infatti, l’effetto interruttivo permanente disciplinato da tale norma deve essere riconosciuto anche alla domanda dichiarata inammissibile, posto che la relativa dichiarazione di inammissibilità presuppone in ogni caso una pronuncia giudiziale idonea a passare formalmente in giudicato e, correlativamente, una difesa attiva della controparte, che dunque si presuppone sia pienamente edotta della volontà dell’attore di azionare il diritto oggetto della domanda.

La sentenza in parola pare perfettamente coerente con i principi cardine dell’impianto processualistico e, segnatamente, con la finalità e la ratio dell’art. 2945 c.c.. Si ritiene, peraltro, che un’importante eccezione possa darsi nel caso in cui la domanda attorea sia dichiarata inammissibile (rectius, radicalmente nulla) qualora ricorra l’ipotesi disciplinata dall’art. 164, comma 4, c.p.c.:

La citazione è altresì nulla se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito nel numero 3) dell’articolo 163 ovvero se manca l’esposizione dei fatti di cui al numero 4) dello stesso articolo.

Un vizio afferente l’editio actionis, ad avviso di chi scrive, renderebbe infatti impossibile ritenere soddisfatto quel requisito di conoscibilità dell’altrui diritto fatto valere in giudizio, ritenuto elemento determinante dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 29609/2018 qui riportata. Tanto è vero che un’eventuale integrazione o rinnovazione, rilevato il vizio di cui all’art. 164, comma 4, c.p.c., per espressa previsione legislativa contenuta nel seguente comma 5 avrebbe efficacia sanante ex nunc e lascerebbe, dunque, ferma ogni prescrizione o decadenza nel frattempo intervenuta.

In conclusione, si ritiene che la domanda giudiziale inammissibile possa essere ritenuta idonea ad interrompere la prescrizione con effetto interruttivo permanente sino al passaggio in giudicato della sentenza che ne ha sancito l’inammissibilità. Qualora, tuttavia, la declaratoria di inammissibilità/nullità sia il portato dell’applicazione dell’art. 164, comma 4, c.p.c. (evidentemente, senza che la parte che agisce in giudizio abbia proceduto a idonea integrazione o rinnovazione della domanda), la domanda stessa non esplicherà, pacificamente, alcuna efficacia interruttiva nemmeno ad effetto istantaneo.

Recupero del credito e nuovo procedimento monitorio, ipotesi di modifica del codice di procedura civile

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È al vaglio al Senato, proprio in questi giorni, il disegno di legge n. 755 dd. 07.08.2018 (qui il link), avente ad oggetto “modifiche al procedimento monitorio ed esecutivo per l’effettiva realizzazione del credito“. Il d.d.l., per quel che interessa in questa sede, prevede l’introduzione di un’ulteriore procedura di recupero credito in via monitoria, da affiancare dunque a quella “tradizionale” di cui all’art. 633 c.p.c.. Questo il testo dell’art. 656bis c.p.c., nella formulazione proposta nel disegno di legge:

Art. 656- bis – (Atto di ingiunzione di pagamento) – L’avvocato munito di mandato professionale, su richiesta dell’assistito che sia creditore di una somma liquida di danaro, emette un atto di ingiunzione di pagamento con cui ingiunge all’altra parte di pagare la somma dovuta nel termine di venti giorni, con l’espresso avvertimento che nello stesso termine può essere fatta opposizione a norma degli articoli seguenti e che, in mancanza di opposizione, si procederà a esecuzione forzata: a) se del diritto fatto valere si dà prova scritta ai sensi dell’articolo 634; b) se il credito riguarda onorari per prestazioni giudiziali o stragiudiziali o rimborso di spese fatte da avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari o da chiunque altro ha prestato la sua opera in occasione di un processo; c) se il credito riguarda onorari, diritti o rimborsi spettanti ai notai a norma della loro legge professionale, oppure ad altri esercenti una libera professione o arte, per la quale esiste una tariffa legalmente approvata. Nell’atto di intimazione sono quantificate le spese e le competenze e se ne ingiunge il pagamento.

Nella sostanza, il procedimento monitorio nella sua nuova veste, alternativa ed ulteriore rispetto a quella attuale, si svilupperebbe come atto di parte, il cui impulso sarebbe affidato al legale del creditore: in questa fase non sarebbe dunque necessario alcun vaglio né provvedimento giudiziale. La ratio dichiarata della proposta è quella di introdurre un meccanismo di alternative dispute resolution. Nello stesso testo del d.d.l. si legge quanto segue:

In buona sostanza è il difensore di parte che accerta gli elementi di cui all’articolo 633 del codice di procedura civile, che il disegno di legge riproduce nel nuovo articolo 656- bis, eliminando, per talune ipotesi, quel mero «accertamento notarile» che oggi è svolto dai giudici civili e che tuttavia ha un notevole costo per l’amministrazione della giustizia provocando un rallentamento ed un impatto negativo sulle aspettative di giustizia dei cittadini e delle imprese.

Viene peraltro specificato come, anzitutto, l’ingiunzione di pagamento inviata dal legale non potrà avere alcuna efficacia esecutiva, neppure provvisoria, se non in caso di mancata opposizione del ricevente nei termini indicati dalla norma. In via ulteriore, si è tentato di assicurare comunque un preventivo vaglio rispetto alla fondatezza del credito, affidando tale attività allo stesso legale e prevedendo l’introduzione del seguente articolo:

Art. 656- ter – (Verifica dei presupposti) – È onere dell’avvocato che emette l’ingiunzione, a pena di responsabilità civile e disciplinare, verificare la sussistenza dei requisiti previsti dall’articolo 656- bis. Nel caso in cui l’avvocato ometta con dolo o colpa grave la puntuale verifica della sussistenza di tali requisiti, ne risponde disciplinarmente dinnanzi al competente ordine professionale e deve rimborsare le spese giudiziarie sostenute e i danni subiti dal soggetto erroneamente ingiunto. [omissis]

L’eventuale opposizione del debitore, sempre secondo la prospettazione del disegno di legge n. 755/2018, dovrà essere proposta nella forma del ricorso (e non già, dunque, dell’atto di citazione) sempre nel termine di venti giorni dal ricevimento dell’ingiunzione, decorso infruttuosamente il quale il creditore potrà agire forzatamente. Il contenuto del d.d.l. e, segnatamente, lo strumento processuale che lo stesso si propone di introdurre con la (pur meritoria) finalità di rendere più snello e meno macchinoso il recupero del credito, desta non poche perplessità.

Anzitutto, ad avviso di chi scrive l’ingiunzione “di parte” potrebbe andare incontro a possibili censure dal punto di vista della sua legittimità costituzionale, con particolare riguardo all’art. 24 Cost.. Lo strumento processuale di cui al tratteggiato art. 656bis c.p.c. pare infatti sottrarre al necessario ed indefettibile vaglio di un organo giurisdizionale l’emissione di un atto che, in assenza di opposizione negli stretti termini temporali indicati nella proposta di legge, è destinato ad esplicare effetti estremamente incisivi nella sfera giuridica del debitore, e tutto ciò in lesione del suo diritto di difesa costituzionalmente garantito.

In secondo luogo, proprio in quanto atto di parte si ritiene che lo strumento processuale in parola possa prestarsi a possibili storture applicative, rese più improbabili a fronte del controllo giurisdizionale, pur a vocazione prevalentemente formalistica, previsto dall’attuale assetto del procedimento monitorio. Storture che difficilmente potranno essere scongiurate dagli strumenti di responsabilizzazione del legale della parte creditrice, stante il fatto che da quest’ultimo difficilmente potrà essere pretesa una verifica che vada oltre l’esistenza e apparente regolarità della documentazione posta a base dell’asserito credito.

Al contrario, ad avviso di chi scrive pare meritevole di approfondita valutazione la proposta di introduzione dell’art. 492ter c.p.c., grazie al quale sarebbe possibile per il creditore, previa autorizzazione del Presidente del Tribunale territorialmente competente, accedere ad informazioni relative ai beni da pignorare del debitore. Ciò, chiaramente, andrebbe a chiaro vantaggio della parte creditrice, la quale potrebbe valutare la convenienza e l’opportunità di un’azione monitoria prima di darvi corso, così da avere piena consapevolezza di potenzialità, costi e rischi.