Il mobbing è assicurato dall’Inail

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Il termine mobbing deriva dal verbo to mob, che nella lingua inglese significa: attaccare, assalire, con riferimento, per quanto riguarda la scienza etologica, al comportamento del branco di alcune specie animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo[1].

Traslata nel contesto più razionale dell’organizzazione aziendale, la parola individua e definisce il complesso delle pratiche vessatorie e/o persecutorie, degli atteggiamenti di ritorsione ovvero di violenza psicologica, che vengono deliberatamente e ripetutamente posti in essere da alcuni soggetti dell’ambiente lavorativo – datore di lavoro, superiori gerarchici, colleghi di pari livello o addirittura subalterni – nei confronti di un soggetto, col risultato di provocargli uno stato di profondo disagio, contrassegnato da isolamento e terrore psicologico, in grado di recare danno notevole al suo equilibrio psico-fisico[2].

Il mobbing si sostanzia dunque in “una serie di azioni che si ripetono per un lungo periodo di tempo, compiute da uno o più mobber (datore di lavoro o colleghi) per danneggiare qualcuno quasi sempre in modo sistematico e con uno scopo preciso. Il mobbizzato viene accerchiato e aggredito intenzionalmente dai mobber che mettono in atto strategie comportamentali volte alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale”.[3]

La relazione tematica n. 142/2008 della Corte di Cassazione spiega a riguardo che

Le forme che il mobbing può assumere sul posto di lavoro nei confronti di un lavoratore sono diverse, e possono consistere in: a) pressioni o molestie psicologiche; b) calunnie sistematiche; c) maltrattamenti verbali ed offese personali; d) minacce od atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente od avvilire, anche in forma velata ed indiretta; e) critiche immotivate ed atteggiamenti ostili; f) delegittimazione dell’immagine, anche di fronte a colleghi ed a soggetti estranei all’impresa, ente od amministrazione; g) esclusione od immotivata marginalizzazione dall’attività lavorativa ovvero svuotamento delle mansioni; h) attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi, e comunque idonei a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore; i) attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto; l) impedimento sistematico ed immotivato all’accesso a notizie ed informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro; m) marginalizzazione immotivata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e di aggiornamento professionale; n) esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre danni o seri disagi; o) atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore, consistenti in discriminazioni.

In ogni caso, la fattispecie assume rilevanza, secondo gli studi di settore, una volta che gli atti di persecuzione acquistino i requisiti della sistematicità e della durata, per quanto non si esclude che anche un singolo atto lesivo possa rilevare ove i relativi effetti siano duraturi.”

Sotto il profilo assicurativo, il mobbing va naturalmente catalogato, non già come infortunio sul lavoro, ma come malattia professionale.

Oltre alle differenze cliniche e di eziologia e manifestazione, i due fenomeni si distinguono normativamente per il regime della tutela assicurativa, che all’infortunio è prestata qualora avvenga “in occasione di lavoro” (art. 1 d.PR. 1124/1965), mentre alla malattia è accordata qualora sia contratta “nell’esercizio e a causa delle lavorazioni” (art. 3).

In virtù di queste previsioni divergenti, si sono registrate da parte dell’Inail delle posizioni, suffragate da alcune correnti dottrinali e giurisprudenziali, di reiezione delle richieste d’indennizzo presentate da lavoratori che, in conseguenza del mobbing subito, avevano lamentato una malattia professionale.

L’esclusione della copertura assicurativa Inail è motivata dall’argomentazione che, laddove per l’indennizzabilità dell’infortunio sarebbe sufficiente l’occasionalitàcome mero collegamento accidentale, nel caso della malattia professionale sarebbe invece richiesto che sia causalmente collegata alla specifica attività svolta dall’assicurato, mentre nessun rilievo andrebbe attribuito all’organizzazione del lavoro (cfr., ad es., C. App. Perugia, sent. n. 294/2012).

In realtà, se consideriamo la natura dell’assicurazione, la prospettiva corretta con cui affrontare la questione è quella delrischio. Questi difatti è anche l’approccio di molta giurisprudenza in materia di assicurazione obbligatoria [4].

Approccio del tutto condivisibile, visto che proprio il rischio è l’elemento-tipo base del contratto di assicurazione, e dunque anche del rapporto assicurativo di cui l’Inail è parte. La finalità del contratto di assicurazione è propriamente quella di trasferire il rischio del verificarsi del danno dall’assicurato all’assicuratore (compagnia privata o Inail).

Orbene, a proposito del rischio assicurato trasferito all’Inail, la giurisprudenza (tra cui quella in nota 4) ha avuto modo di specificare che esso consta:

1)    sia del rischio specifico proprio della lavorazione

2)    sia del rischio specifico improprio, ossia non strettamente insito nell’atto materiale della prestazione ma collegato con la prestazione stessa. Si possono enumerare, ad esemplificazione, le attività prodromiche, quelle di prevenzione, gli atti di locomozione interna, le pause fisiologiche, le attività sindacali

3)    sia del rischio ambientale, che ricomprende oggettivamente lo spazio in cui si esercitano le attività protette dall’assicurazione (a prescindere dalla diretta adibizione a una macchina), e soggettivamente tutti i lavoratori che frequentano questo spazio (a prescindere dalla manualità della mansione e dall’adibizione alla macchina).

Di conseguenza, l’interpretazione giurisprudenziale del rischio attiene a ogni attività (anche non lavorativa) in qualsivoglia modo correlata al contesto del lavoro, la cui pericolosità è data non dalla specifica mansione svolta dal singolo lavoratore bensì dall’ambiente di lavoro in cui egli si trovi a operare.

Muovendo dal rischio, naturalmente quest’estensione va applicata tanto al caso dell’infortunio quanto al caso della malattia professionale.

Si pensi ad es. a Cass. 3227/2011, che ha esteso la protezione assicurativa alla malattia riconducibile all’esposizione al fumo passivo nei luoghi di lavoro: un rischio chiaramente non insito nella pericolosità della prestazione lavorativa in sé considerata; ma connesso al fatto oggettivo dell’esecuzione di un lavoro all’interno di un determinato ambiente.

L’ermeneutica nomofilattica trova sponda anche nella giurisprudenza costituzionale.

Già la sentenza 179/1988 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.P.R. 1124/1965 nella parte in cui non prevede che “l’assicurazione contro le malattie professionali nell’industria è obbligatoria anche per le malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate concernenti le dette malattie e da quelle causate da una lavorazione specificata”.

È proprio in forza di questa pronuncia della Corte costituzionale, che Cass. 5577/1998 ha potuto asserire che l’assicurazione contro le malattie professionali è obbligatoria per tutte le malattie anche diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate al d.P.R. 1124/1965 e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nelle tabelle stesse, purché si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa di lavoro.

Successivamente, Corte cost. 100/1991 ha affermato che “oggetto della tutela dell’art.38 non è il rischio di infortuni o di malattia professionale, bensì questi eventi in quanto incidenti sulla capacità di lavoro e collegati da un nesso causale con attività tipicamente valutata dalla legge come meritevole di tutela“.

Alla luce di queste considerazioni, e visto che il mobbing è un fenomeno che si manifesta tipicamente proprio nell’ambiente lavorativo, non poteva non farsi rientrare nell’alveo della copertura assicurativa Inail, quale malattia professionale, anche la patologia derivante dal mobbing.

Così infatti annota Cass. 20774/2018: “L’approdo, cui conduce questo lungo excursus, porta dunque ad affermare che, nell’ambito del sistema del TU,

sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione;

dovendosi ritenere incongrua una qualsiasi distinzione in tal senso, posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni, sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica (come peraltro prevede oggi a fini preventivi l’art. 28, comma 1 del tu. 81/2008). Pertanto, ed in conclusione, ogni forma di tecnopatia che possa ritenersi conseguenza di attività lavorativa risulta assicurata all’INAIL, anche se non è compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi tabellati, dovendo in tale caso il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di causa tra la lavorazione patogena e la malattia.”

[1] S. TRIFIRÒ, G. FAVALLI, F. ROTONDI, Le soluzioni degli esperti, DPL Casi e Questioni 26/2003; Salvatore Mazzamuto, Un’introduzione al mobbing: obbligo di protezione e condotte plurime d’inadempimento, in (a cura di) P. TOSI, Il mobbing, Giappichelli, Torino, 2004, pag. 1 e ss.

[2] P. RAUSEI, Il mobbing sarà reato? – L’ipotesi della sanzione penale in Italia, DPL Inserto 31/2002.

[3] H. EGE, Mobbing, Bologna 1996, pag. 23 e ss. Cfr. id., Il mobbing in Italia, Bologna 1997; Il mobbing estremo, Bologna 1997 e I numeri del mobbing. La prima ricerca italiana, Bologna 1998.

[4] Cfr. ex plurimis Cass. 20774/2018, Cass. 13882/16, Cass.7313/2016, Cass. 27829/2009; Cass. 10317/2006, Cass. 16417/2005, Cass.7633/2004, Cass.3765/2004, Cass.6894/2002, Cass.5841/2002, Cass. 5354/2002, Cass.1944/2002, Cass. 9556/2001, Cass. 3363/2001, Cass. 10298/2000, Cass. 12652/1998, Cass. 131/1990).

Lavoratore e fondo complementare: a chi spetta l’insinuazione al passivo fallimentare del datore?

E’ opinione di chi scrive che legittimato attivo a far valere le proprie ragioni per il mancato versamento della contribuzione al fondo pensione sia il lavoratore.

Tuttavia, va preso atto che parte della giurisprudenza – sulla scorta di alcune posizioni dottrinali – ritiene invece che esista una legittimazione concorsuale, o addirittura esclusiva, del fondo.

Di seguito verrà dato conto delle ragioni dissenzienti rispetto a tali pronunce, indicando al contempo alcune soluzioni operative nel caso in cui il giudice fallimentare adito ritenesse di poter accogliere le sole insinuazioni al passivo presentate dal fondo.

Il lavoratore come titolare del credito.
Il sistema della previdenza complementare presenta delle caratteristiche che lo contraddistinguono dalla previdenza obbligatoria: ragione per la quale non vi si possono estendere per analogia le conclusioni e le argomentazioni utilizzate per quest’ultima, nella quale è pacifico che titolare del credito contributivo sia esclusivamente l’ente previdenziale.

La prima peculiarità è che, nella previdenza complementare, la posizione assicurativa del lavoratore è una “posizione individuale”: non v’è alcun automatismo tra contribuzione versata e maturazione del diritto al trattamento pensionistico (come avviene invece nella previdenza obbligatoria, finanziata a ripartizione), in quanto la costruzione della prestazione complementare è legata non solo ai contributi netti versati ma anche ai rendimenti derivanti dalla gestione.

In secondo luogo, a differenza della previdenza obbligatoria, l’adesione al fondo e il versamento della contribuzione complementare non derivano automaticamente dal rapporto di lavoro, ma dal rapporto associativo tra fondo, datore e lavoratore: tant’è che i versamenti sulla posizione individuale possono continuare, da parte del lavoratore o di un terzo, anche qualora il rapporto di lavoro venisse meno.

Altra caratteristica è che, a differenza dell’art. 3 d.lgs. 80/1992 che richiede per la previdenza obbligatoria la compiuta prescrizione del credito contributivo, l’art. 5 invece non subordina l’attivazione del Fondo di garanzia INPS a copertura dei contributi omessi alla circostanza che questi non possano essere più versati per sopravvenuta prescrizione. Il che significa, allora, che anche prima del termine prescrizionale il lavoratore ha la titolarità di attivarsi (non così, invece, nella previdenza obbligatoria, dove la necessità del decorso del termine prescrizionale sta a indicare che in pendenza del termine solamente l’ente previdenziale può interrompere la prescrizione e cioè far valere il diritto di credito contributivo): si tratta, dunque, di un diritto ‘attuale’ del lavoratore.

Significativa è l’espressione letterale utilizzata proprio all’art. 5, comma 2, d.lgs. 80/1992, che definisce quale ‘credito’ del lavoratore il ‘versamento da parte dei datori di lavoro (…) dei contributi dovuti per forme di previdenza complementare’.

Ciò trova conferma anche nel dato normativo (poi ripreso, se pure con alcune limitazioni, dalle condizioni statutarie e regolamentari dei singoli fondi) che con determinati presupposti consente al lavoratore di riscattare in tutto o in parte il capitale versato al fondo, ancor prima di aver maturato il diritto alla prestazione pensionistica; oppure, di poter trasferire la propria posizione individuale da un fondo a un altro; o di disporre circa il destino del montante residuo in caso di morte rispettivamente successiva o antecedente alla maturazione del diritto alla prestazione pensionistica.

Infine, sintomatico appare anche l’art. 1, comma 2, lett. e), n. 8, L 243/2004, che – pur rimasto inattuato nel decreto legislativo – parla di ‘attribuzione ai fondi pensione della contitolarità con i propri iscritti al diritto alla contribuzione, compreso il trattamento di fine rapporto cui è tenuto il datore di lavoro, e la legittimazione dei fondi stessi, rafforzando le modalità di riscossione anche coattiva, a rappresentare i propri iscritti nelle controversie aventi ad oggetto i contributi omessi nonché l’eventuale danno derivante dal mancato conseguimento dei relativi rendimenti’.

In definitiva, il lavoratore appare titolare di un diritto attuale al versamento della contribuzione al fondo previdenziale complementare; e, come tale, titolare necessariamente anche del relativo diritto processuale, e cioè della legittimazione attiva a far valere le proprie ragioni, sia con strumenti difensivi (richiesta d’intervento del Fondo garanzia INPS) sia con strumenti offensivi (condanna del datore di lavoro all’adempimento; insinuazione al passivo).

La posizione e la responsabilità del Fondo.
Certamente anche il Fondo è titolare di un interesse, meritevole di tutela giuridica, a che i versamenti contributivi vengano correttamente adempiuti.

Ciò è vero, non solo per quel che concerne l’incameramento dei versamenti; ma anche a tutela della propria responsabilità quale creditore della contribuzione nei confronti del creditore della prestazione pensionistica (ossia il lavoratore).
Questo trova conferma in numerose previsioni statutarie e regolamentari, per cui molti fondi premuniscono il recupero dei contributi omessi applicando non solo gli interessi ma anche delle sanzioni contrattuali pecuniarie.

Ne consegue, anche in ragione di quanto al § precedente, che l’irregolarità contributiva lede il diritto di cui sia il lavoratore sia il fondo sono titolari.
Il bene giuridico tutelato è la provvista della posizione individuale del lavoratore: sicché il danno è uno solo, appunto la lesione della provvista, nonostante vi sia la lesione di due diversi diritti (la posizione individuale del lavoratore e il diritto di credito del fondo).

La contitolarità del diritto alla provvista comporta una differente responsabilità del fondo verso il lavoratore, rispetto a quella dell’ente previdenziale: nel caso della previdenza obbligatoria, infatti, essendo l’ente l’unico titolare del diritto di credito contributivo, la sua mancata attivazione nonostante la segnalazione da parte del lavoratore dell’omissione contributiva lo rende responsabile del danno da riduzione del trattamento pensionistico; nel caso della previdenza complementare, invece, essendo anche il lavoratore titolare del diritto di credito contributivo e potendo dunque lui attivarsi personalmente in caso di omissione contributiva, l’unica obbligazione che rende il fondo responsabile verso il lavoratore è l’informativa periodica relativa alla posizione individuale, il cui inadempimento non mette l’aderente nella condizione di conoscere dell’omissione contributiva.

Non v’è, invece, alcun obbligo di attivarsi per il fondo che abbia regolarmente tenuto aggiornato il lavoratore rispetto alla sua posizione individuale.

Le diverse prospettive nella provvista mediante versamento di contributi e in quella mediante conferimento del tfr.

Va dato atto che, in dottrina, alcuni distinguono la posizione del fondo secondo che la provvista della posizione individuale (‘contribuzione’ in senso lato) avvenga con conferimento di tfr oppure con versamento di contributi. Nello specifico, solamente nel secondo caso tale dottrina ritiene sussistente un diritto di credito del fondo; mentre nella prima ipotesi il fondo non sarebbe titolare di alcuna legittimazione contro l’omissione contributiva.

La distinzione tra le due modalità di contribuzione viene così spiegata.

Solamente nel caso di versamento di contributi sarebbe integrato l’istituto della delegazione di pagamento (art. 1269 c.c.). In questo caso, infatti, il lavoratore, aderendo al fondo, ne diverrebbe debitore; il datore di lavoro, in virtù dell’accordo collettivo o aziendale, sarebbe chiamato a versare in luogo del lavoratore (in tutto o in parte) i relativi contributi; e, pertanto, in questa costruzione il debitore del fondo (il lavoratore) delegherebbe il terzo (il datore), che si obbliga verso il creditore (il fondo), ad eseguire il versamento. Il fondo, quale creditore del debitore, sarebbe dunque titolare del diritto di credito e del relativo ius exigendi.

Nel caso del conferimento di tfr a marcare la differenza sarebbe la circostanza che il tfr è un credito di ‘retribuzione differita’ di cui il lavoratore è titolare maturandolo per il semplice svolgimento della prestazione lavorativa, a prescindere dall’adesione al fondo complementare: al contrario, i contributi di cui sopra sono un credito del lavoratore che nasce proprio con la finalità di provvista della previdenza complementare. Nel caso del conferimento di tfr, dunque, si assisterebbe semplicemente al pagamento fatto alla persona indicata dal creditore (art. 1888 c.c.). Secondo tale opinione, dunque, in questa ipotesi non sarebbe nemmeno configurabile un diritto del fondo di agire nei confronti del debitore (datore di lavoro) del creditore (lavoratore).

Non è questa la sede per approfondire gli aspetti critici di questa prospettiva, anche con riferimento alla maturazione e alla esigibilità dei ratei di tfr (anche alla luce del c.d. quir).

Va puntualizzato che alla medesima soluzione si dovrebbe arrivare qualora i contributi, diversi dal conferimento del tfr, non fossero che una trattenuta operata dal datore di lavoro sulla retribuzione del lavoratore.

Al di là di tali posizioni dottrinali, va dato atto che la giurisprudenza ritiene per lo più che il fondo sia sempre delegatario (anche nel caso di conferimento della retribuzione normale o differita al fondo), e come tale legittimato ad agire nei confronti del datore per il versamento di tali somme; ma che, se il fondo rimane inerte nel recupero dei contributi non versati (anche per una valutazione inerente la propria funzione o l’impiego delle proprie risorse), è indubbio che il lavoratore possa agire per far valere il diritto al pagamento delle quote a titolo contributivo non versate.
Così sul punto, ad esempio, Trib. Milano 354/14 e, su posizione analoga, anche l’orientamento di Trib. Treviso.

Tra le varie opzioni solutive, va ricordato (pur con qualche riserva, visto che si ritiene che sussista la titolarità in capo al lavoratore del credito e alla tutela della posizione individuale) l’art. 2900 c.c.

Soluzioni operative.
In definitiva, appare del tutto lecita l’opzione del Fondo, che abbia debitamente informato il lavoratore aderente della posizione individuale, di comunicare a quest’ultimo, che lo abbia sollecitato ad attivarsi, la propria intenzione di non agire per il recupero dei crediti non versati.

La maggior parte dei tribunali (a prescindere dai singoli orientamenti sopra richiamati) ammette ed accetta l’insinuazione al passivo del lavoratore, eventualmente subordinandola alla comunicazione formale del fondo di attivarsi per il recupero dei crediti contributivi.

Residua solamente l’ipotesi in cui il giudice fallimentare ritenga di ravvisare nel fondo pensione l’unico soggetto legittimato all’insinuazione nello stato passivo dei crediti per contributi non versati dal datore.

In questi casi residuali, si segnala che la Covip, rispondendo nell’ottobre 2010 a un quesito in materia di legittimazione all’insinuazione nello stato passivo della procedura fallimentare del datore di lavoro inadempiente, ha espresso l’avviso (cui ci si associa) che
sia opportuno che il fondo stesso si uniformi alla disposizione del Giudice e ponga in essere gli adempimenti necessari per la tutela degli interessi dell’iscritto. Ciò, anche avuto riguardo al fatto che l’insinuazione nello stato passivo costituisce un presupposto per l’attivazione da parte dell’aderente delle prestazioni erogate dal Fondo di garanzia, unico presidio specifico apprestato attualmente dall’ordinamento per tutelare gli iscritti dalle omissioni contributive di parte datoriale. Qualora il fondo pensione si attivi per la tutela del credito, è opportuno che lo stesso si faccia rilasciare dall’iscritto un’apposita delega recante anche l’indicazione dell’importo del credito, conoscibile nel preciso ammontare solo dal lavoratore”.

 

credits:
RICCARDO VIANELLO, Garanzie e tutela dei diritti, in “La previdenza complementare. L’art. 2123” (a cura di) Maurizio Cinelli, Il Codice Civile. Commentario, Giuffrè, pag. 649